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Libero, se l’indignazione apre la strada alla censura

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Vittorio Feltri spesso può risultare simpatico tame la gèra fra le müdande: il direttore di Libero non se la prenderà, il paragone (“come la ghiaia fra le mutande”) tra l’altro è espresso in un idioma che per ceppo è molto vicino al dialetto orobico mentre lui è anche uomo di spirito e forse – anzi, leviamo il forse – se ne compiace molto. Così avrà goduto un sacco mercoledì mattina, mentre sui social si susseguivano commenti indignati per il titolo di apertura di Libero nel quale inevitabilmente si leggeva un legame tra l’arretramento del prodotto interno lordo e l’aumento degli outing lungo la penisola italiana.

Il quotidiano di viale Majno non è nuovo a titoli che hanno l’effetto di un sasso lanciato in piccionaia: una tradizione ben consolidata sin dall’inizio e portata avanti anche nel susseguirsi di cambi nella reggenza (Feltri, Belpietro, Belpietro con Feltri, solo Belpietro e infine di nuovo Feltri). Può piacere o meno, può dare fastidio come la ghiaia là dove non dovrebbe stare o no, ma d’altra parte il metodo del direttore è ben conosciuto e per quanto poi gli articoli possano rivelare aspetti molto più approfonditi e complessi, gli addetti ai lavori e non solo sanno che il titolo fa la differenza e sui titoli a Libero giocano con piacere.

Mercoledì però si è davvero scatenato il finimondo e d’altronde non poteva essere altrimenti. È ovviamente legittimo criticare una scelta editoriale, un titolo, una foto, adottando anche toni accesi come nell’occasione, ma occorre pure stare attenti perché da una parte l’indignazione può trasformarsi in una involontaria cassa di risonanza per l’affermazione imputata, in parte perché tra le maglie larghe della protesta morale si annidano gli avvoltoi pronti ad approfittarne.

Risultano così sospette certe dichiarazioni giunte sempre nella giornata di mercoledì da parte di Vito Crimi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’editoria. Crimi ha commentato così la vicenda: “Provo disgusto per il titolo del giornale Libero. Un giornale che riceve soldi pubblici che prima pubblica titoli razzisti, poi oggi anche omofobi. Avvierò immediatamente una procedura interna per vagliare la possibilità di bloccare l’erogazione dei fondi residui spettanti ad un giornale che offende la dignità di tutti gli italiani e ferisce la democrazia”.

La prima parte del ragionamento, come scritto sopra, è legittima. La seconda no e puzza di censura. I fondi pubblici all’editoria sono uno dei nervi scoperti di questa legislatura, con il governo che ha garantito che verranno azzerati e molti quotidiani che iniziano a fare i conti per vedere come stare a galla. Quindi Crimi pensa bene di affidarsi al ricatto: voi offendete la democrazia (in che modo poi? Pubblicando titoli che fanno arricciare il naso? Basta davvero così poco?) e io vi riservo un trattamento personalizzato chiudendovi immediatamente i rubinetti. Se qui c’è qualcuno che offende la natura democratica dello stato italiano, di certo non risiede a Milano, ma a Roma.

Ironia della sorte tra l’altro, poche ore prima il leader del partito di Crimi, Luigi Di Maio, aveva nominato l’attore Lino Banfi rappresentante all’Unesco: e come non ricordare dunque il mitico commissario Auricchio che canticchiava “non sono frocione, non mi chiamo frì frì”? Ma correva l’anno 1981, erano evidentemente altri tempi: probabilmente si sopportava meglio la gèra fra le müdande.

In tutto questo viene in mente un’amara considerazione di Giovannino Guareschi, datata maggio 1949. “In Italia – scriveva l’autore parmense dalle colonne del Candido – non esistono eccezioni: se un giornale non fa della politica, se si ostina a dire quello che pensano i suoi redattori e non quello che conviene far credere che essi pensino, si troverà alla fine solo contro tutti”. Vero: Libero fa politica, ma soprattutto si ostina a dire quello che non conviene far credere che i suoi redattori pensino. Può dare molto fastidio, anche per motivi sensati, ma la democrazia non è sempre piacevole.

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