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Miti e realtà dell’indipendentismo catalano

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Nelle ultime settimane la Catalogna è diventata scenario di scontri e devastazioni perpetrate dalla frangia più estremista – eppure numericamente molto nutrita – del movimento indipendentista. Con la miccia dell’aggressività già accesa, il primum movens di tanta violenza è finito quasi dimenticato, mentre si assisteva a una specie di combustione devastatrice alimentata da individui il cui unico proposito era menar le mani, giocando alla guerra senza rischiare nulla. Gente in cerca di emozioni forti altrimenti irraggiungibili, di soddisfazione sbrigativa ai propri istinti belluini, primari, giovani mossi da rivalsa verso la società, intenzionati a scaricare i propri fallimenti e le proprie frustrazioni su un-colpevole-purchessia, individuato in questo caso nel “malefico” stato spagnolo. Ma facciamo un passo indietro, anzi due.

Tutto comincia nel 2006, quando il governo di Rodríguez Zapatero, con le vele elettorali gonfie di un miracolo economico che poi si rivelerà friabile come un mattone mal cotto – leggasi: la bolla immobiliare –, decide di concedere alla Catalogna un Estatut regionale che verrà poi impugnato davanti alla Corte costituzionale dal Partido Popular, e che sarà poi dalla stessa Corte in parte smontato. La frustrazione comincia così a serpeggiare negli ambienti autonomisti catalani, ma con l’economia che prospera il malcontento rimane sotto traccia.

Con l’avvento della Grande Crisi, tuttavia, gli animi si infiammano parecchio in tutta la Spagna. In Catalogna la crisi economica si traduce nella necessità di tagliare le spese di una Generalitat di colpo alle prese con ristrettezze di bilancio. Un po’ per convinzione e un po’ per opportunismo (forse è quest’ultimo ad avere maggior peso) il governo regionale decide di ricorrere al jolly identitario per modellare e gestire il malcontento sociale, addossando al governo di Madrid tutte le colpe, riassumibili nello slogan “España nos roba”. A onor del vero, va detto che le rivendicazioni fiscali della Catalogna hanno una certa base empirica, coi catalani che risultano contribuenti netti. Ma certo non più degli abitanti di Madrid o delle isole Baleari, dove però i politici locali non possono far leva sul sentimento nazionalista, almeno non nella misura in cui vi si può fare appello in Catalogna.

Ma quello che i dirigenti politici indipendentisti e autonomisti (prima della deriva più recente, tra gli uni e gli altri esisteva una differenza netta) non avevano calcolato, o che forse avevano calcolato fin troppo bene, è che una volta uscito dalla lampada il genio identitario non ci sarebbe voluto rientrare. Così preparano un referendum per il 2017 e, sulla base del suo risultato, dichiarano l’indipendenza del principato. Si dichiara l’indipendenza ma contemporaneamente se ne sospendono gli effetti, in un atto politico che qualcuno, con invidiabile creatività lessicale, definisce “indipendenza retrattile”. Lo shock, per i sostenitori dell’indipendenza, è notevole. Il simulacro di indipendenza è seguito di lì a poco dall’intervento dello Stato spagnolo, che sospende l’autonomia per un breve – qualcuno dice sin troppo – periodo di tempo, al termine del quale viene ridata in tutta fretta la parola ai catalani.

Ma ormai la dinamica è avviata. E il decennale controllo dell’educazione da parte delle autorità locali fa il resto: molti catalani sono convinti, in varia misura, di essere vittime di uno Stato spagnolo ai limiti del dispotismo. Dispotismo la cui ultima manifestazione consisterebbe nella soppressione della “libertà di espressione” decretata da un tribunale che condanna i responsabili della “strana secessione” a pene carcerarie. Tuttavia, al di là del giudizio circa la durezza delle pene carcerarie imposte, resta che dette pene sono contemplate dal codice penale, e che quindi né lo Stato spagnolo né il tribunale stesso sono usciti dai limiti dello stato di diritto. Tanto più che nessuno è stato condannato per essersi liberamente espresso, quanto per aver organizzato proteste, a volte anche violente, il cui fine era quello di impedire alle autorità pubbliche di adempiere al proprio mandato evitando la secessione unilaterale di una parte del territorio spagnolo.

Sfatiamo poi qualche mito. Innanzitutto, l’indipendentismo catalano è ben lungi dall’essere un movimento libertario, di protesta contro l’oppressione fiscale e a favore di maggiori spazi di libertà individuale. È vero piuttosto il contrario: si tratta di un movimento di chiaro stampo collettivista, il cui obiettivo è ottenere il pieno controllo della popolazione per poterne meglio modellare le dinamiche sociali ed economiche. L’accento sui servizi pubblici, sulla giustizia sociale, sulla redistribuzione e sulla necessità di imbrigliare la società è spiccato quasi quanto la richiesta di indipendenza. E ciò non sorprende, visto che gran parte del separatismo catalano e della miriade di associazioni che ne costituiscono la force de frappe sono il frutto, da una parte, di una massiccia rete di sussidi pubblici e, dall’altra, di due generazioni di educazione e di comunicazione mediatica pubblica saldamente in mano alla politica locale. L’afflato separatista non si nutre di aspirazioni pluraliste e libertarie, bensì uniformatrici e stataliste.

Insomma, è alquanto improbabile che il popolo catalano, qualora si liberasse dalle “catene” spagnole, si ritrovi di colpo in un eden fatto di basse tasse, e di libertà di impresa e di scelta in ogni ambito della propria vita. Si direbbe, anzi, che uno scenario del tutto opposto appaia il più probabile. Non dimentichiamo inoltre che l’appoggio all’indipendenza è, per quanto imponente, minoritario all’interno della comunità autonoma. E comprensibilmente in fondo, se si guarda alle pulsioni dirigiste, costruttiviste e anti-libertarie proprie della maggioranza delle forze politiche e dell’elettorato indipendentista.

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