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Motovedette alla Libia. Bene, ma non basta: serve un cambio di passo

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In questi ultimi giorni prima della pausa estiva dei lavori parlamentari è in discussione la conversione del decreto legge 84/2018 che dispone la cessione alla Guardia costiera libica di 10 motovedette “classe 500” e 2 navi “classe corrubia”. Il provvedimento prevede inoltre lo stanziamento di un milione e 370mila euro “per la manutenzione delle unità navali, per lo svolgimento di attività addestrativa e di formazione del personale” della Guardia costiera e della Marina libica, “al fine di potenziarne le capacità operativa nel contrasto all’immigrazione illegale e alla tratta di esseri umani”.

Il trasferimento delle imbarcazioni al paese nord-africano è inserito nel più ampio contesto di trattati bilaterali e memorandum di intesa tra cui occorre citare il “Trattato d’amicizia” del 2008, che all’articolo 19 prevede l’intensificazione della collaborazione nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti e all’immigrazione clandestina e il memorandum d’intesa, siglato nel febbraio 2017, che sancisce l’impegno da parte dell’Italia a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, e che sono rappresentati dalla Guardia di frontiera e dalla Guardia costiera del Ministero della difesa, e dagli organi e dipartimenti competenti presso il Ministero dell’interno.

Il trasferimento delle imbarcazioni al Paese che si affaccia sul Golfo della Sirte è un’azione certamente positiva, evidenzia la reale volontà del governo di arrestare il flusso migratorio e di migliorare i rapporti tra i due paesi, ma è abbastanza?

La Francia, che sa come giocare le partite geopolitiche sia da single player sia inserita in contesti più ampi – al contrario dell’Italia che negli ultimi anni si è frequentemente ancorata ad una spesso incoerente Ue – dopo solo due mesi dalla salita all’Eliseo di Macron invitò a Parigi al-Serraj, l’uomo riconosciuto dalla comunità internazionale in Libia, e il generale Haftar, leader della vasta area della Cirenaica, tagliando di fatto fuori l’Italia dalla partita. Interloquendo con il solo al-Serraj il prezzo che l’Italia rischia di pagare è la perdita dei giacimenti petroliferi affidati all’ENI da un lato, l’inefficacia della politica anti migratoria dall’altro, visto che gran parte dei trafficanti di uomini provengono da aree che non sono sotto l’influenza di Tripoli (e quindi di al-Serraj).

Oltre alla estensione dei rapporti con il Paese nord-africano a tutti i principali player che detengono sacche di potere in esso, è ormai chiara la necessità di un blocco navale “concordato”. L’attuazione di quest’ipotesi porterebbe molteplici benefici: dissuasione alla partenza dei barconi per la consapevolezza dell’esistenza del blocco; la riconduzione presso i porti di partenza dei migranti in caso di salvataggio; la creazione di hot spot in loco per il discernimento dei migranti economici da coloro che fuggono da guerre e regimi anti democratici. Tutto questo però, e qui torniamo al focus della questione, può avvenire solo tramite accordi con il governo ufficiale di al-Serraj, il generale Haftar e gli altri attori minori dello scenario libico.

La cessione italiana di imbarcazioni a favore del governo libico è quindi un passo positivo nell’ottica dei rapporti tra i due stati, ma urge un cambio di passo nell’interlocuzione che non può essere attuata nei confronti di una sola fazione, seppur quella ufficiale. Il risultato sarà quello di preservare gli interessi delle nostre aziende strategiche e ricucire la ferita che provoca l’emorragia migratoria verso l’Italia e l’Europa.

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