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Nasce Atlantico, per una battaglia di idee e di visioni contro la “politica regressista”

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Lo si dimentica troppo spesso, specie alle nostre latitudini, dove molto si riduce a lite condominiale, a polemica tribale, a chiacchiera di giornata: ma la politica dovrebbe essere in primo luogo una battaglia di idee.
I nostri avversari (gli statalisti, i cultori dell’interventismo pubblico, i feticisti di tasse-spesa-debito) non l’hanno affatto dimenticato. In questo (solo in questo) meritano ammirazione e perfino imitazione. In giro per il mondo, infatti, è tutto un fiorire di proposte politiche di questo tipo: Sanders in America, Corbyn nel Regno Unito, Podemos in Spagna, ovviamente i Cinquestelle, con il loro reddito di cittadinanza, ma anche gran parte degli altri partiti qui in Italia.
È certamente il momento di chiamarle con il loro nome: una sinistra, ma purtroppo in Italia e nell’Ue anche una parte della destra, regressiste, costruttrici di povertà, tassatrici sfrenate, scialacquatrici del denaro dei contribuenti. Eppure meritano rispetto almeno su un punto: i loro principi non li nascondono, li espongono con chiarezza, fanno una semina anche culturale nella direzione che è più cara e più opportuna per loro.
E – da quella prospettiva – i risultati non mancano. Una significativa maggioranza dei millennials di tutto il mondo è sinceramente convinta che il “male” sia il mercato, la competizione, il privato; che occorrano più leggi, più intervento pubblico, più piani governativi; che il lavoro si costruisca attraverso l’intervento pubblico, il governo, la legislazione. Aggiungete un po’ di magliette con l’effigie di Che Guevara, e il gioco è fatto.
E noi, invece? Serve a poco piagnucolare. E serve ancora meno sottovalutare. Se una così grande maggioranza di giovani la pensa così, è colpa nostra. Dei liberali pro-mercato. Perché? Perché non ci siamo saputi spiegare. Perché abbiamo subito la narrazione surreale secondo cui vi sarebbe stato (in Italia, figuriamoci!) un trentennio liberista, anzi “neo-liberista” (si sa, se vuoi rendere qualcosa ancora più minaccioso, basta premettere il prefisso “neo”). Perché (al massimo) abbiamo risposto con dettagli, cifre noiose, roba – con rispetto parlando – da contabili e avvocaticchi. Perché non abbiamo difeso i principi. Perché non ci siamo fatti carico di capire le paure e le ansie di un pezzo grande di popolazione che si fa tutte le domande giuste (sul lavoro che non c’è, sulla sicurezza economica che manca), ma è fatalmente incline ad accettare le risposte sbagliate (“ci vuole più stato, più pubblico, più spesa”).
È anche il paradosso della cosiddetta anti-politica. Come indicano da anni sondaggi e studi, i cittadini nutrono una sfiducia cronica e crescente nella politica e nelle istituzioni. Eppure, nonostante le clamorose inefficienze, gli sprechi e il malaffare sistemico di municipalizzate e servizi nazionali quali la sanità, per quegli stessi cittadini il ruolo del pubblico non è mai in discussione, è lo stato che deve occuparsi di quasi tutto, dai servizi pubblici al garantire il posto di lavoro e, in mancanza di esso, un reddito di cittadinanza. Non rendendosi conto che più la sfera della gestione pubblica si espande, più inevitabilmente cresce il numero, il ruolo (e l›appetito) dei partiti e dei politici che tanto disprezzano. Troppi cittadini ancora si illudono che si tratti unicamente di una questione morale, che basti affidarsi ai politici “onesti”. Sottovalutando il fatto meramente quantitativo e statistico, dunque strutturale: più si ingrandisce la torta, più emerge l’inefficienza sistemica della mano pubblica e si aprono margini di manovra per corrotti e corruttori, più spesso di quanto si pensi spinti ad aggirare lentezze burocratiche e procedure cervellotiche.
La grandezza di Reagan e Thatcher non è stata solo quella di avere scelto idee giuste, ma soprattutto di averle rese maggioritarie, di averne garantito l’accettabilità, di non essersi sottratti alla battaglia delle idee. Di avere spiegato che non era (non è) solo questione di “libertà economica”, ma di libertà tout-court, senza aggettivi. Che ridurre il perimetro dell’invadenza pubblica significa allargare lo spazio delle famiglie, delle imprese, degli individui, di una società che sa auto-organizzarsi, di una “cosa” meravigliosa e vibrante che si chiama libertà, vita, mercato.
Lo sappiamo bene. Viviamo certamente tempi difficili: tempi oscuri, incerti, per molti versi imperscrutabili. E occorre quindi diffidare (scappate se li incontrate!) di quelli che vi snocciolano previsioni pluriennali… Il grande Mervyn King, già Governatore della Banca d’Inghilterra, lo ha spiegato meglio di tutti: a meno che tu non sia un indovino, non puoi fare previsioni; al massimo, puoi elaborare una “coping strategy”, una strategia di adattamento ai mutamenti e ai diversi scenari possibili.
Ma questo non vuol dire accettare e introiettare un minimalismo da micropolitiche. Non ce ne voglia Enrico Letta: ma la sua immagine del “cacciavite” è esattamente il contrario di ciò che serve, a nostro avviso. Il cacciavite implica l’idea che la “macchina” sia tutto sommato a posto, e che occorrano solo piccoli adattamenti. Per noi, per l’Occidente e per l’Italia, servono invece grandi visioni, serve un respiro, serve anche la capacità di ricreare una speranza.
Reagan poté dire, a un certo punto: “It’s morning again in America”. Qui, quando la notte è ancora lunga, occorre lavorare in quella direzione. Qualcuno ci sta provando, in Occidente: la riforma fiscale di Trump è una risposta grande, forte, evocativa, è uno choc positivo. Brexit, nel Regno Unito, può avere lo stesso sbocco: una grande operazione non solo di orgoglio nazionale, ma una scossa anti-tasse, anti-regolazione, per fare dell’Inghilterra un formidabile attrattore di risorse e investimenti, una spettacolare calamita per talenti e imprese.

E qui da noi? Lasciamo da parte il folklore: Renzi e la sua dimensione egotica, egoriferita, megalomane, pur in presenza di un fallimento politico conclamato; l’inadeguatezza palese dei grillini; un centrodestra che avrebbe il vento nelle vele (grazie ai suoi splendidi elettori) ma che ha perso troppo tempo schivando le questioni vere (debito, spesa, tasse, Europa).
È come se un po’ tutti accettassero l’idea che una grande svolta non è più possibile, e che si tratta solo di “gestire” decorosamente un inevitabile declino italiano.
Qui, nel nostro piccolo, non ci vogliamo rassegnare, e offriamo uno spazio di discussione. Abbiamo chiesto a una serie di personalità e amici (grazie a tutti!) di esprimere un loro auspicio per la prossima legislatura, il prossimo governo, il prossimo parlamento.
A volte sono amici impegnati in politica, in genere nel centrodestra; spesso sono personalità coinvolte nell’attività culturale di New Direction Italia (il ramo italiano della fondazione culturale a suo tempo patrocinata dalla signora Thatcher); altre volte sono osservatori liberi, indipendenti, che hanno generosamente detto la loro. Con una pluralità di tinte, di sfumature, di nuances.
Ringraziamo tutti per questa partenza. Partenza doppia. Per un verso, infatti, nasce un magazine trimestrale cartaceo. E per altro verso, parte un quotidiano online: tre commenti al giorno, una rotazione di voci, visioni e sfumature; focus su politica interna, politica internazionale ed economia, ma con piacevoli divagazioni in altri territori. E il quotidiano online, oltre a vivere sul sito www.atlanticoquotidiano.it, avrà un poderoso rilancio sui social network, e anche un’intensa vita sotto forma di newsletter.

A questo punto, dovrebbe esser chiaro il perché di Atlantico, nonostante quello in cui viviamo venga ormai definito come il secolo del “Pacifico”. Non per negare in qualche modo la validità delle molte autorevoli analisi sullo spostamento degli equilibri economici e politici verso l’Asia, sull’ascesa della Cina come global superpower, e dunque sulla sempre maggiore centralità geopolitica dell’area del Pacifico, ma per riaffermare, ricordare a noi stessi, quei principi e valori che hanno reso grande la civiltà occidentale e che oggi sembriamo voler rinnegare, quasi vergognandoci del successo e della prosperità – sì, anche dell’egemonia a livello globale – che ci hanno garantito. Non abbiamo “rubato” nulla agli altri popoli. Al contrario, spinti a seguirci, hanno beneficiato di un progresso che ha investito tutto il pianeta, facendo uscire dalla miseria e dal sottosviluppo centinaia di milioni, se non miliardi di persone.
Nel suo libro “Civilization”, lo storico Niall Ferguson individua le sei “killer apps”, le armi vincenti che hanno permesso all’Occidente di dominare il mondo nonostante i suoi piccoli stati nazionali e le sue divisioni. La prima di esse è la competizione tra diversi modelli politici, istituzionali, economici, ed è quella da cui anche le altre cinque “apps” (rivoluzione scientifica e tecnologica; diritto di proprietà e democrazia; medicina; libero mercato e consumismo; etica del lavoro) sono derivate. E in nome dell’integrazione politica e di quella economica, la cosiddetta “armonizzazione fiscale”, proprio alla “killer app” principale, la competizione, dovremmo rinunciare secondo le élites europee…
Atlantico, dunque, perché come Occidente – pur nella diversità: l’Anglosfera, l’Europa continentale e mediterranea, fino a Israele – non possiamo sperare di affrontare e vincere le sfide di questo nuovo secolo e millennio dimenticandoci o, peggio, rinnegando ciò che siamo e ciò che ci ha resi una grande civiltà.
A noi pare che per l’Italia e l’Europa di oggi la dimensione atlantica resti due volte decisiva. Una prima volta, sul terreno geopolitico e geostrategico: guai ad accettare l’idea di un’Europa che dovesse disimpegnarsi dalla Nato, distanziarsi dall’Anglosfera, dimenticare la tragica lezione del Novecento, credendo di trovare il proprio posto nel mondo in una sorta di equidistanza da Washington e Londra da una parte e da Mosca e Pechino dall’altra. E una seconda volta dal punto di vista economico: perché il meglio, per l’Italia e per noi, è sempre venuto proprio dal legame transatlantico, anche sul terreno della crescita e della creazione di ricchezza.
Il nostro è un piccolo vascello. E affrontare… un oceano, sia pure in modo figurato e metaforico, è un’impresa ardua. Eppure, per le ragioni che abbiamo detto, ci sembra un momento potenzialmente magico, di nuova semina per i liberalconservatori. A maggior ragione serve recuperare una dimensione anche didattica della battaglia culturale e politica, provare a far discendere le soluzioni concrete da idee forti, costruire le condizioni affinché abbiano più forza i conviction politicians, le persone che credono nelle idee più che nelle convenienze di un momento. Proviamoci. E leggiamoci.

Daniele Capezzone, Federico Punzi
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