La sconfitta di Corbyn è la sconfitta di chi invece di riformare il socialismo anglosassone ha cercato di distruggerlo per cercare di importare nel Regno Unito un modello di socialismo bolivariano che nel Paese non ha mai attecchito
Il prossimo 4 aprile, il partito Laburista avrà un nuovo leader. Sir Keir Starmer (il favorito), Rebecca Long-Bailey e Lisa Nandy si stanno giocando il tutto per tutto per sostituire Jeremy Corbyn, il 70enne segretario dimessosi dopo aver ottenuto il peggior risultato elettorale nella storia del Labour dal 1935 nelle elezioni del dicembre scorso.
Dopo 5 anni si chiude l’Era Corbyn, ed è il momento di trarre un bilancio finale. Gli elettori britannici hanno dato un giudizio complessivamente negativo dell’operato di Jezza – così lo chiamano i suoi aficionados – consegnando il corbynismo alla storia dalla parte dell’opposizione. In un sondaggio pubblicato da YouGov dopo la tornata elettorale natalizia, Corbyn è stato identificato come il motivo principale che ha portato gli elettori a passare dai laburisti ai conservatori o a far decidere gli incerti per l’astensione. Ancor più della Brexit e ancora più delle politiche economiche dello stesso Corbyn. Se il Labour ha tenuto piuttosto bene a Londra, la rivolta contro il suo leader ha assunto i caratteri di una vera e propria rivoluzione nei tradizionali feudi laburisti del nord-est che hanno premiato i candidati Tory dopo tempo immemore: Workington, Blyth Valley e Sedgefield sono nomi di località ormai ben stampate nella memoria dei dirigenti del partito in Victoria Street.
Quando nel 2015 la sinistra interna al Partito Laburista fece inserire il nome di Corbyn tra quelli dei candidati all’eredità di Ed Miliband nessuno si aspettava che Corbyn vincesse il leadership contest. Lo avevano fatto solo per dare voce a una minoranza interna che negli anni del New Labour era stata ai margini dell’azione di governo di Tony Blair e di Gordon Brown. Eppure, i militanti di Momentum, il partito degli attivisti pro-Corbyn duri e puri che hanno sostenuto l’MP di Islington durante tutto il suo mandato, organizzarono una campagna moderna e capillare che permise al loro pupillo di vincere a mani basse la corsa tra lo stupore generale. Iniziò subito la resa dei conti con l’ala riformista del partito rappresentata dal vice segretario con Tom Watson. Eppure, nonostante il gruppo degli MP laburisti gli votò per ben due volte la sfiducia, Corbyn proseguì imperterrito la sua battaglia: il numero degli iscritti al partito fece boom come non mai negli ultimi anni e, dopo una ottima performance sia mediatica che elettorale alle elezioni del 2017, Corbyn sembrò davvero in procinto di varcare la porta più celebre d’Oltremanica, quella del n. 10 di Downing Street.
In questi anni Corbyn è stato coerente su molte posizioni, come spesso lo è stato in passato. Marxista, terzomondista, anti-capitalista, No War e anti-monarchico, il leader Laburista non ha mai smesso di predicare il Vangelo della giustizia sociale e delle pari opportunità per tutti: lo slogan delle sue due campagne elettorali è sempre stato For The Many Not The Few, “per tanti, non per pochi”. Eppure, Jezza è stato incoerente proprio sul punto che ha più determinato lo spostamento del baricentro della politica britannica negli ultimi 4 anni: la Brexit. Al referendum del 2016 schierò il Partito Laburista su posizioni europeiste mai del tutto accettate con convinzione dallo stesso leader, per poi sparire in campagna elettorale. La vittoria del Leave pose Corbyn in una situazione onestamente di difficile gestione: mentre nei grandi centri urbani filo-laburisti aveva prevalso il Remain, nel nord-est post-industriale del Paese la Brexit aveva spopolato. Corbyn si è così trovato tra due fuochi e ha cambiato idea in modo opportunistico sull’uscita dall’Ue, a seconda delle difficoltà che incontrava Theresa May sull’argomento. Nel 2017, fece campagna per portare a termine la Brexit se fosse diventato primo ministro. Nel dicembre scorso fece campagna per sottoporre un referendum agli elettori una volta rinegoziato un accordo con Bruxelles e annunciando che il suo governo non avrebbe fatto campagna né a favore né contro. Fu facile anche per uno come Boris Johnson – non certo campione di coerenza – schernirlo affermando: “Sapevamo che Corbyn era indeciso. Ora non sa nemmeno di esserlo”. E in mezzo alle due tornate elettorali altre giravolte: sì al secondo referendum, no a una hard Brexit, sì alla permanenza nell’unione doganale e così via.
Corbyn si è difeso dalla débâcle con le parole tipiche di chi ha passato la vita all’opposizione, anche nel suo stesso partito. “Abbiamo perso le elezioni, ma abbiamo vinto il dibattito delle idee”. Una frase che ricorda il Bertinotti ferocemente satireggiato da Guzzanti. Non basta avere delle idee valide – e men che meno essere “coerenti” – se queste idee non si articolano in un programma di governo accettato dalla maggioranza (relativa) degli elettori. La piattaforma di Corbyn può anche essere stata anti-austerity e interventista nell’economia come quella di Johnson ma alla fine ha pesato anche il popularity contest: tra il leader di una nuova loony left 40 anni dopo Michael Foot e l’ingombrante istrione Tory non c’è mai stata partita.
In molti tra i sostenitori di Corbyn hanno parlato di lui come di un nuovo Clement Attlee, il premier laburista che nel 1945 sconfisse Churchill e adottò il programma di welfare state del liberale William Beveridge. Ma il governo Attlee schierò convintamente il Regno Unito nella Nato grazie al suo Foreign Secretary, Ernest Bevin, mentre Corbyn è sempre stato anti-americano e contro l’Alleanza Atlantica; Attlee stesso era socialmente conservatore e monarchico, mentre Corbyn non ha risparmiato punzecchiature alla Famiglia Reale (che non sopporta); e che dire del suo ministro del tesoro, Hugh Dalton, che prima di darsi alla politica era stato precettore di Re Giorgio V? Come disse un altro storico leader del Labour, Harold Wilson, la nascita del “Labour doveva più al metodismo che non al marxismo” e, nel corso degli anni i cristiano-sociali e i gradualisti della Società Fabiana sono sempre stati il cuore del partito. La sconfitta di Corbyn è la sconfitta di chi invece di riformare il socialismo anglosassone ha cercato di distruggerlo per cercare di importare nel Regno Unito un modello di socialismo bolivariano che nel Paese non ha mai attecchito.