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Il “diritto di exit”. Perché, col senno di poi, la Brexit resta necessaria

KNUTSFORD, UNITED KINGDOM - MARCH 17: In this photo illustration, the European Union and the Union flag sit together on bunting on March 17, 2016 in Knutsford, United Kingdom. The United Kingdom will hold a referendum on June 23, 2016 to decide whether or not to remain a member of the European Union (EU), an economic and political partnership involving 28 European countries which allows members to trade together in a single market and free movement across its borders for citizens. (Photo by illustration by Christopher Furlong/Getty Images)

Contrariamente a quanto racconta qualche giornale europeo, a poche settimane dalla data “fatidica”, in Gran Bretagna non esiste nessun rimpianto maggioritario per la scelta di abbandonare l’Unione europea – non esiste alcun “Bregret”.

I sondaggi in merito alla fuoriuscita dall’Ue non si sono mai sostanzialmente spostati e l’assenza di un qualche cambio di umore in atto nel paese è confermata dal fatto che entrambi i maggiori partiti esprimono in modo chiaro l’impegno ad onorare il referendum del 2016. A sostenere la prospettiva del Remain restano solamente i liberaldemocratici che, malgrado gli spazi politici lasciati dallo spostamento a sinistra del Labour, permangono ancorati a percentuali che non garantirebbero alcun impatto politico in caso di elezioni.

Naturalmente non sarebbe obiettivo negare che la Brexit si stia mostrando un percorso irto di ostacoli e che per il Regno Unito si possano verificare, nel breve periodo, alcuni contraccolpi. Di certo l’Unione europea ha reagito alla decisione britannica con una posizione punitiva e vendicativa che contrasta con il proclamato spirito di “apertura” di cui sovente si ammantano le leadership europeiste. Dall’altro lato, Londra non sempre ha mostrato sufficiente lucidità nel mettere in fila le priorità della strategia negoziale, anche in virtù della limitata sensibilità dell’attuale premier rispetto alle necessità di una “Global Britain”. Ben più incisiva ed ideologicamente coerente sarebbe, probabilmente, una Brexit guidata da leader conservatori con maggiore “visione” come Boris Johnson o Sajid Javid.

Eppure, pur alla luce delle difficoltà e “con il senno di oggi”, la Brexit si conferma un passaggio necessario per riconfigurare gli equilibri politici ed istituzionali europei dei prossimi anni. La ragione è, innanzitutto, che l’affermazione di dinamiche istituzionali e territoriali sane richiede che esista – e non solamente sulla carta – il principio del “diritto di exit”; serve, in altre parole, il diritto di chiamarsi fuori da vincoli di appartenenza che non siano (o non siano più) vantaggiosi per tutte le parti coinvolte.

Il concetto è che ogni unione deve avere un carattere pattizio – cioè deve fondarsi sul mutuo beneficio di chi vi aderisce. Per questo è necessario che il consenso delle comunità per le “grandi appartenenze” sia periodicamente riverificato attraverso strumenti democratici; la legittimità delle istituzioni deve, costantemente, emanare dal basso.

Se il “diritto di exit” è negato – cioè se le unioni non hanno alternativa o via di uscita – la qualità delle relazioni politiche inevitabilmente si guasta ed il principio del mutuo beneficio è facilmente sostituito dall’abuso e dalla prevaricazione. Si gettano le basi per assistenzialismo, massificazione, predazione delle aree produttive e ricerca del consenso sulla base di meccanismi “politici” nel senso più deteriore. Uscendo dall’Unione europea, la Gran Bretagna dimostra che nessuno ha (ancora) sufficiente potere per fare, a livello Europa, quello che, ad esempio, nel sistema centralista italiano viene fatto a Lombardia e Veneto in Italia. Finché resta concretamente possibile abbandonare l’Ue, nel continente continuerà, nei fatti, a prevalere la dimensione istituzionale “orizzontale”.

Il merito della recente ondata generale di disaffezione verso Bruxelles è proprio quello di aver messo i bastoni tra le ruote a quel concetto di “ever closer union” che se realizzato avrebbe portato al definitivo prevalere di un’Europa “verticale”, dove i vecchi Stati nazionali si vedrebbero sottomessi una volta per tutte alla supremazia di nuovo livello istituzionale europeo. Se il progetto europeista, negli ultimi cinque-dieci anni avesse potuto andare avanti indisturbato, la centralizzazione forse sarebbe oggi già andata oltre qualsiasi possibilità di “recall” da parte degli elettorati.

Ovviamente quello che c’è da augurarsi è che la possibilità di decidere sul proprio futuro non resti confinata all’eccezione culturale britannica, ma diventi, nei prossimi anni, una fondamentale rivendicazione democratica dei cittadini dei vari Stati europei.

Il successo della Brexit, in definitiva, si misurerà in primo luogo nel potenziale che potrà innescare sulle dinamiche istituzionali e costituzionali d’Europa, facendo pesare la necessità di approcci bottom-up alle relazioni politiche. Sul piano più strettamente britannico, poi, porterà preziosi frutti se porrà il Regno Unito nelle effettive condizioni di proporsi come “player globale” perseguendo la rete più estesa possibile di relazioni di libero scambio, oltre i protezionismi e le regolamentazioni imposti dall’appartenenza all’Unione Europea. Al tempo stesso potrà consentire di implementare in tema di immigrazione scelte politiche nuove e più rispondenti alle esigenze effettive; si tratta di un terreno che, contrariamente alla vulgata, richiede soluzioni locali e non “europee”, perché diverse da posto a posto sono sensibilità culturali ed esigenze del mercato del lavoro.

Insomma, la Brexit non appare affatto “morta in partenza”, né tantomeno una confusa illusione dalla quale rapidamente riprendersi. Al contrario, nel complesso scenario di questi anni, lo strappo britannico rappresenta una concreta opportunità di rilanciare i concetti di libertà, mercato, democrazia, consenso e rappresentanza in Europa.

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