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Nello schiaffo a Macron tutti i limiti del “grillismo” delle élite

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A cogliere con maggiore lucidità il significato politico della sconfitta di Macron alle elezioni per il rinnovo dell’Assemblée Nationale è stato Lord David Frost, già negoziatore dell’accordo Uk-Ue sulla Brexit per il governo britannico, e ora possibile candidato alla leadership dei Tories, ala rigorosamente thatcheriana.

Con un post su Twitter in risposta a un’analisi dell’autore di National Populism, Matt Goodwin, Frost ha infatti dichiarato: “Quello che è successo a Macron succede quando i politici mainstream e le strutture dell’Ue vogliono togliere la politica dalla politica, eliminare il dibattito e la scelta alle elezioni. Alla fine gli elettori si spostano dove questa scelta viene data”.

Il “grillismo” delle élite

Anche così si spiega l’inquietante successo ottenuto da Mélenchon e da Le Pen domenica: alla formazione centrista di Macron, una maionese impazzita di tecno-dirigismo franco-europeista e a-partitico, esaltata dai concetti di competenza, di superiorità sociale e intellettuale sugli avversari, sono mancati un cuore e un messaggio politico in grado di portare Ensamble alla maggioranza dei seggi.

Il fenomeno non è nuovo, e ha anche una lunga casistica nel nostro Paese. Di fronte a un quadro politico e partitico instabile, viene creato un movimento nuovo con la finzione che nasca quasi dal nulla per convincere gli elettori a recarsi alle urne e votare per un brand che fino a poco tempo prima non era presente sul mercato elettorale.

L’operazione che lanciò Macron nel 2016, in fondo, non è nient’altro che un Movimento 5 Stelle del settimo e dell’ottavo arrondissement parigino, un “grillismo delle élite” creato per fare fronte all’avanzata della sinistra e della destra radicali, e all’arretramento degli storici partiti della Quinta Repubblica, i gollisti e i socialisti.

Ecco perché in questi anni Macron ha oscillato tra politiche che strizzavano l’occhio alla sinistra e altre law and order – anzi, sarebbe meglio definirle law and disorder – che avevano lo scopo di attrarre a se le esigenze degli elettori di destra.

Un partito senz’anima

Ne è uscito un partito senz’anima, che ha cercato di accaparrarsi i migliori professionisti e tecnici sulla piazza in Francia, coltivare i rapporti – quasi incestuosi – tra alti mandarini e cabinets d’affaires parigini (da cui proviene lo stesso Macron) e poco altro.

La Francia profonda ha voltato le spalle a Macron, ma questa volta anche i grandi centri urbani lo hanno mollato per intraprendere la via del populismo radical-goscista di Mélenchon.

Più che soluzione, parte del problema

La soluzione al problema della “presa” dei partiti sulla società francese – problema che, con una architettura istituzionale diversa abbiamo, ahinoi, anche in Italia – non è stato En Marche. Macron ha solo buttato la palla in tribuna e guadagnato tempo.

Nel frattempo Marine Le Pen ha ottenuto il suo migliore risultato di sempre alle presidenziali e alle legislative, i socialisti sono stati drenati nel consenso e nella classe dirigente, e i gollisti potranno – se lo vorranno – solo recitare l’imbarazzante ruolo di stampella alla maggioranza parlamentare di Macron e dell’inquilina di Palazzo Matignon, Elizabeth Borne.

Anche in Francia si sono mostrati, dunque, tutti i limiti di una politica costruita in vitro, fondata sullo slacktivism degli utenti dei social media, incapace di creare forti legami con una società sempre più priva di punti di riferimento tra i corpi intermedi, tradizionale punto di appoggio delle persone e dei partiti.

Questo al netto di un sistema semi-presidenziale che elegge un monarca repubblicano e restringe di molto il ruolo del Parlamento e dei partiti. Invece di essere la soluzione al problema, l’ultimo, ambiziosissimo inquilino dell’Eliseo ne è stato, però, parte integrante.

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