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Ripresa più forte dietro la crisi dei trasporti in UK: ecco perché Brexit non c’entra

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Julian Jessop è un economista, fellow dell’Institute of Economic Affairs con oltre trent’anni di esperienza nel settore pubblico e privato, esperto di economia britannica e globale, di politica fiscale e monetaria e di mercato del lavoro. Lo abbiamo intervistato sulla recente crisi dei trasporti nel Regno Unito.

ARIANNA CAPUANI: Come spiegherebbe la crisi del trasporto merci? È colpa di Brexit o si tratta di una crisi globale?

JULIAN JESSOP: Hai ragione a dire che si tratta di una crisi globale. Diversi Paesi sono stati colpiti in diversi modi, anche se tutto sommato simili, in Europa e fuori. Al momento, negli Stati Uniti la National Guard guida gli scuolabus, perché non si trovano più autisti. Per quanto riguarda la Gran Bretagna, sta affrontando alcuni problemi meglio di altri, e altri problemi in modo peggiore. Le aree in cui ha una performance migliore è l’inflazione dei prezzi di cibo e benzina. L’inflazione, nello specifico, è a livelli più bassi rispetto al resto d’Europa o anche rispetto agli Stati Uniti, e una delle ragioni è la sterlina forte già a inizio 2021. Ne consegue che il costo del cibo e della benzina importati sono minori rispetto a quanto ci si aspettasse.

Per altri aspetti, come i ritardi nelle filiere della manifattura, i problemi sono grosso modo analoghi al resto d’Europa. La carenza di camionisti è invece uno dei settori in cui la Gran Bretagna sta soffrendo di più. Ma anche in questo settore, le differenze col resto d’Europa non sono così accentuate. Esistono alcuni dettagli specifici che però non hanno nulla a che fare con Brexit. È anche a causa di una ripresa economica più forte che altrove che si incorre prima di altri nella carenza di manodopera. Brexit ha avuto un suo ruolo, ma minore rispetto ad altri fattori. Il governo ha emesso più visti per gli autisti di autocisterne, ma soltanto 127 hanno risposto, il che dimostra che esiste una carenza di autisti a livello europeo. Ovviamente la crisi dei carburanti è causata in larga parte dall’allarmismo, più che da una vera carenza di benzina. La gente in preda al panico ha causato un eccesso della domanda. Ora il problema sembra essere in gran parte rientrato, anche se con alcune sacche a Londra e nel sudest dell’Inghilterra che ancora soffrono di carenza di benzina alle autopompe.

Uno dei problemi da citare è senza dubbio l’elevata età media dei camionisti. È inoltre difficile che i giovani vogliano intraprendere questa professione, per non parlare delle donne, e questo non soltanto per le condizioni lavorative non molto favorevoli, ma anche per i turni di notte e per altri problemi di lungo corso legati alla remunerazione. Uno degli effetti potenziali di Brexit sarebbe quello di indurre i datori di lavoro a investire di più sui propri dipendenti. Molto tempo dei camionisti viene sprecato in file e attese per i turni dello scarico merci, ma il problema potrebbe risolversi con l’impiego della tecnologia, anche se finora non è stato una priorità, perché il tempo dei camionisti vale poco. Se essi cominciassero a costare di più, allora si potrebbe investire di più sulla tecnologia per poterli utilizzare in modo più efficiente. Con un’accresciuta produttività, si diviene in grado di giustificare anche un aumento degli stipendi. C’è da sperare che Brexit riesca a facilitare questi cambiamenti, anche se i costi della transizione al momento sono elevati, probabilmente anche più di quel che avrebbero dovuto essere, e questo perché governo e pubblica amministrazione non hanno intrapreso misure preventive in tempo. Sembra proprio che non ci sia stato nessun piano d’emergenza per permettere al traffico merci di scorrere, ma nonostante il mancato intervento governativo, la situazione potrebbe riuscire a ristrutturare il settore.

AC: E il ruolo del governo in tutto questo?

JJ: La risposta del governo alla crisi si è articolata in varie fasi. Inizialmente è stato lento nel riconoscere il problema, e poi sembra aver lasciato tutto al mercato. La terza fase ha visto un’oscillazione tra “estenderemo i visti” e “no, non lo faremo”. Insomma, credo che il governo abbia agito con ritardo, reagendo piuttosto che prevenendo con un piano specifico. Credo che la questione si risolverà e i camionisti verranno pagati di più, ma la transizione è più caotica del dovuto.

AC: Crede che estendere i visti per cinque mesi sarà una misura sufficiente?
JJ: Cinque mesi è certamente meglio che tre come si era pensato all’inizio, e spero anche sia un tempo sufficiente per formare nuovi camionisti in Gran Bretagna, dal momento che uno dei problemi è stata l’impossibilità di potersi formare e prendere la patente durante la pandemia. Se si formassero un 10, 20 mila autisti autoctoni sarebbe meglio di circa 200 importati dal resto d’Europa.

Se si considerano i lockdown nel Regno Unito, hanno avuto progressivamente sempre meno impatto rispetto ai precedenti, e questo perché’ i diversi settori produttivi si sono adattati, o potenziando i servizi online o con il lavoro da casa. Credo che la pandemia abbia dimostrato che il settore privato sia molto flessibile, e forse era proprio questo lo shock di cui molti settori industriali avevano bisogno. Abbiamo già parlato dei camionisti, ma un altro settore è quello agricolo, che è evidentemente diventato dipendente dai lavoratori stagionali europei. Credo che questo afflusso debba continuare, dal momento che si tratta di lavori non molto ambiti tra i lavoratori britannici, ma maggiormente desiderabili per i lavoratori ucraini, ad esempio. Si tratta di problemi risolvibili. Potrebbe significare pagarli di più, ma se la domanda esiste, si può aiutare i produttori a soddisfarla.

Il sistema di immigrazione “a punti” australiano è sicuramente il modello a cui si guarda, ma da noi ha trovato alcuni intralci. Il primo è dovuto al fatto che per ragioni forse ideologiche, il governo non ha voluto concedere troppi visti, perché ammettere che la libertà di movimento fosse di qualche vantaggio sarebbe stato visto come un segnale di sconfitta. Inoltre, credo che abbiano scelto l’impostazione sbagliata. Si stanno infatti privilegiando i lavoratori altamente specializzati – dove “altamente specializzati” significa soltanto “ben retribuiti” e non necessariamente altro. Si potrebbe invece dire che è dei lavori non molto specializzati che abbiamo bisogno, dal momento che questi lavoratori stranieri si offrono di eseguire lavori che i nostri concittadini non vogliono fare. Apprezzo l’idea che questi lavori possano andare agli immigrati europei che ne ricaverebbero un salario migliore che non in patria. Apprezzo molto meno invece che i burocrati di Whitehall debbano decidere chi può o non può entrare, senza lasciare che il mercato guidi.

AC: Cambiando discorso, come commenta l’aumento del Pil, è una semplice ripresa post-pandemia, o piuttosto il segno di qualcosa che sta andando nella direzione giusta?

JJ: Sembra che ci stiamo dirigendo verso una crescita del 7 per cento per quest’anno, il che riporterebbe i livelli di attività economica alla situazione pre-Covid, invece che nel 2022 o nel 2023 come alcuni temevano. Questo è dovuto al fatto che Brexit non è stato quel fattore negativo che alcuni pensavano. È ovvio che sia stato di disturbo per alcuni settori, ma tutto sommato eliminare le incertezze portando Brexit a termine ha facilitato le cose.

Il fattore determinante però è stata la ripresa dal Covid – largamente dovuta, a mio parere, a una campagna vaccinale in anticipo e di maggior successo rispetto ad altri Paesi. Lo stesso dicasi per gli Stati Uniti, che hanno visto una ripresa economica relativamente forte. C’è anche altro: si temeva che il Covid avrebbe causato danni economici di lungo termine, ad esempio livelli più elevati di disoccupazione, ma non sembra un vero rischio ora, grazie alla cassa integrazione. La disoccupazione è rimasta a livelli molto bassi, e la creazione di nuovi posti di lavoro si è mantenuta a buoni livelli. Il Covid è riuscito a scuotere l’economia in modo positivo, per alcuni versi. In molti hanno dovuto ripensare al proprio modo di lavorare, ad adattarsi a un mercato più flessibile, e questo potrebbe produrre effetti positivi anche nel lungo termine, tra cui forse eliminare una serie di lavori poco qualificati e caratterizzati da scarsa produttività.

Insomma, il mercato del lavoro è forte, e quindi la carenza di manodopera è un segno positivo. Credo che stiamo passando un difficile periodo di assestamento, probabilmente più difficile del dovuto a causa della mancata organizzazione da parte del governo e dei settori produttivi, anche se credo che tra qualche mese la situazione sarà migliorata. Credo proprio che riusciremo a salvare il Natale, grazie alla rapidità con cui i mercati riescono ad adattarsi.

AC: Il costo dell’energia lo preoccupa?
JJ: L’aumento dei prezzi in campo energetico è un problema di carattere globale, anche se si spera temporaneo. Al momento, i consumatori sono protetti grazie al tetto massimo alle bollette, anche se, probabilmente, le famiglie a basso reddito e le industrie che utilizzano grandi quantità di energia avranno bisogno di ulteriori aiuti.

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