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Sánchez perde la scommessa elettorale: Spagna sempre più ingovernabile

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Se la ripetizione elettorale era una scommessa personale di Pedro Sánchez, si può ben dire che il presidente del Governo l’ha persa strepitosamente. Convocato con l’intenzione di rafforzare la sua maggioranza parlamentare per poter governare in solitario, il voto non solo non ha confermato la crescita sperata ma ha lasciato il Partito Socialista (PSOE) – nonostante la vittoria – con 750.000 voti e 3 seggi in meno rispetto ad aprile. Il voto ha contribuito invece a rilanciare la destra, con un Partito Popolare (PP) che esce dal coma situandosi a quota 88 deputati e soprattutto con VOX che guadagna un milione di consensi in un colpo solo e si afferma, con 52 rappresentanti, come terza forza politica del Paese. La débacle di Ciudadanos (CS), che praticamente scompare perdendo 47 seggi dei 57 che aveva ottenuto sei mesi fa, rende impossibile qualsiasi possibilità di intesa tra centro e sinistra moderata e costa a Rivera le dimissioni, annunciate nella mattinata di ieri dopo una riunione del comitato esecutivo. Sul fronte populista, continua l’emorragia di Podemos, complice anche la scissione dell’ex Iñigo Errejón che gli “ruba” 3 deputati a sinistra. Ma Pablo Iglesias ne perde 7 in tutto (e più di mezzo milione di voti), rendendo la sua posizione ancora più precaria, dentro e fuori dal partito. Gli indipendentisti catalani confermano il loro bacino elettorale nella regione ma non vanno oltre il 42 per cento dei suffragi, lontani dalla fantomatica quota del 50 per cento che era il loro obiettivo immediato. In breve: Spagna più ingovernabile che mai, ascesa della destra radicale, scomparsa del centro rappresentato da Ciudadanos, crisi catalana senza soluzioni in vista, elettori stanchi e possibilità di un altro giro all’orizzonte. Un capolavoro.
Vediamo per punti alcuni degli aspetti principali di questo 10N.

– Sánchez, insieme a Rivera, è il grande sconfitto della giornata. Ha voluto riportare il Paese alle urne per dimostrare di aver avuto ragione a rifiutare qualsiasi accordo di governo e si è ritrovato con un pugno di mosche in mano. La sinistra in calo e la destra in recupero. Anche se accettasse adesso quel che ha scartato fino a ieri (un’alleanza con Podemos puntellata dai nazionalisti) la sua posizione sarebbe molto più debole di prima, in quanto a numeri e a credibilità. Il PSOE con lui è un partito da 120 seggi, non supererà mai questa quota e la maggioranza è lontana (176). Anche se riuscisse a governare, difficile vedere in Sánchez il futuro del socialismo spagnolo.

La decisione di riesumare Franco poco prima del voto ha dissotterrato in realtà VOX che alle europee di maggio era già in calo di consensi, contribuendo a dare alla destra ultra una visibilità innecessaria. Sconcertante il discorso “della vittoria” di domenica sera: siamo i più votati per la terza volta in un anno (come se non fosse questo il problema), adesso sì che governeremo (Ahora sì, recitava il lemma elettorale del PSOE), nessuna autocritica, nessun accenno alle destre. Viene da chiedersi a cosa servano i partiti se nessuno all’interno del PSOE ha saputo frenare l’ambizione e l’ostinazione di Sánchez nel ripetere le elezioni: un errore di calcolo infantile che condanna il Paese ad una continua incertezza.

– Adesso gli scenari possibili per governare sono tre: patto di legislatura con il PP, astensione per permettere la fiducia con accordi puntuali successivi o coalizione di sinistra con Podemos e stampella nazionalista (la formula della mozione di sfiducia al governo Rajoy). La prima opzione è la più ragionevole e logica e proprio per questo non vedrà la luce. Invocata dai principali quotidiani conservatori, la grande coalizione tra i due maggiori partiti dell’arco costituzionale sarebbe la miglior garanzia di stabilità di fronte alla crisi economica che si avvicina e alla sfida secessionista. Anche senza arrivare al governo bi-colore, il PP potrebbe offrire un patto di legislatura al PSOE, rinunciando ai ministeri ma promuovendo la sua agenda su fiscalità, competenze stato-regioni e crisi catalana. In caso Sánchez accettasse, Casado governerebbe nell’interesse del Paese senza esporsi, mentre tutta la responsabilità di un più che probabile no ricadrebbe sull’attuale presidente del Governo. Casado però preferirà attendere le mosse di Sánchez e difficilmente considererà questa ipotesi, soprattutto per evitare che VOX possa accreditarsi come unico partito conservatore di opposizione. La battaglia per l’egemonia a destra sarà uno degli scenari dei prossimi mesi e anni (con Ciudadanos per il momento fuori gioco) e renderà difficile perfino un’astensione tecnica del PP al fine di evitare un nuovo stallo, anche se questa ipotesi continuerà a fare capolino fino al giorno dell’investitura. Sarebbe questa peraltro la soluzione preferita dai socialisti che, attraverso il loro portavoce, hanno già annunciato che di grande coalizione non hanno nessuna voglia.

– Resta aperta la possibilità di un patto con Podemos e Más País (la formazione del fuoriuscito Errejón). Tutto è possibile con Sánchez e Iglesias, ma pensare che questa alleanza – a portata di mano da aprile a settembre e conclusasi senza accordo – possa riproporsi negli stessi termini adesso dopo una seconda tornata elettorale e 140 milioni di euro buttati al vento, sarebbe davvero troppo. Iglesias ci proverà in tutti i modi, anche perché ha bisogno di un salvagente per non affondare dopo due sconfitte elettorali consecutive e una base di consenso personale sempre più fragile. Sánchez ha fatto ripetutamente appello al voto utile: quello a Podemos rischia di rivelarsi il voto più inutile nella storia della democrazia spagnola, vista l’assoluta incapacità della sua leadership di far fruttare il capitale elettorale di cui disponeva fino a un anno fa. Se perde anche questo treno, il chavismo in salsa madrileña è destinato ad un ruolo testimoniale, con una base di irriducibili e nulla più. O governo o dimissioni, non vedo alternative per Pablo Iglesias.

– A dimettersi per il momento è stato Rivera, fondatore di un partito nato con molte speranze di liberalizzare la politica spagnola ma incapace di trovare in tutti questi anni un’identità definita. Bisogna riconoscere a Ciudadanos coerenza e serietà nella campagna contro il secessionismo in Catalogna, pagata a caro prezzo anche personale da molti dei suoi esponenti di primo piano, spesso additati come obiettivi da parte dei nazionalisti radicali. L’avvento di VOX, che in un primo momento sembrava avrebbe pregiudicato maggiormente i popolari, ha invece divorato a destra Rivera e compagni, schiacciati sull’altro fronte da un PP ansioso di rivincita e più radicato nel territorio. Le dimissioni di Rivera, comunque, sono un atto di dignità poco comune da queste parti. Il vuoto al centro che lascia il partito arancione è difficilmente colmabile in tempi brevi. Urge rifondazione, il materiale umano non manca, a cominciare dalla combattiva Inés Arrimadas.

– Veniamo ai trionfatori. VOX ha più che raddoppiato la sua rappresentanza in parlamento in soli sei mesi, e proprio nel momento in cui la sua spinta sembrava interrompersi. Cos’è successo? Questa crescita ha molti padri. In primis, l’indipendentismo in Catalogna: Vox è il nazionalismo reattivo, la risposta al ricatto separatista e all’incapacità delle forze politiche tradizionali di affrontarlo adeguatamente. Ma la destra radicale si presenta anche come l’antidoto a quella che chiama “dittatura progre”, ovvero l’imposizione culturale di un pensiero unico politicamente corretto che in Spagna assume forme specialmente pervasive. Poi gli errori tattici della sinistra che, a forza di gridare al lupo dell’estremismo, finisce per trovarselo alle porte di casa. Non sono tutti demeriti altrui peraltro. Abascal è un leader con eccellenti capacità comunicative e la classe dirigente del partito è piuttosto preparata, formata in maggioranza da liberi professionisti. Dal punto di vista ideologico, al netto delle caricature, VOX è un partito di destra radicale che con il fascismo storico ha ben poco a che vedere. È una forza fortemente nazionalista con tinte autoritarie anche se formalmente liberista in ambito economico. Da adesso sarà la terza compagine politica del Paese e questo condizionerà non poco gli equilibri a Madrid, a partire da come trattare la questione catalana: alleanze, astensioni, opposizione, priorità di governo non potranno non tenere conto della presenza ingombrante del gruppo di Abascal, votato da 15 spagnoli su 100.

– Infine la Catalogna, attorno a cui è girata tutta la campagna elettorale. La tanto invocata soluzione politica si allontana, con un Sánchez più debole e una destra più forte. Vedremo che peso avranno i nazionalisti nelle possibili alleanze di governo a Madrid (l’opportunismo del premier apre le porte a qualsiasi opzione). Però il fatto che il bacino elettorale dell’indipendentismo si sia fermato al 42 per cento in casa dovrebbe far riflettere i cantori del “popolo catalano”. Ovviamente la propaganda separatista non terrà conto di questa realtà e continuerà a propugnare lo scontro con “lo stato spagnolo”. I mezzi legali per fermare la deriva esistono già, basta decidere di applicarli. In gioco c’è più di un risultato elettorale, c’è la convivenza civile e lo stato di diritto. Se non si parte da qui, non c’è via d’uscita possibile.

Da oggi ricomincia la ruota di contatti, speculazioni, rimproveri, accuse e scuse. Si ballerà, speriamo che la pista non sia troppo scivolosa.

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