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SPECIALE ITALYGATE/6 – Con il Kievgate i Democratici cercano di difendersi dalle mosse di Trump che si avvicina alle origini del Russiagate

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Al solito i nostri media mainstream hanno travisato: il “favore” non è indagare su Biden ma sullo “Spygate”. Oltre alla collaborazione di Zelensky, il presidente Usa potrebbe aver chiesto anche quella del suo amico Conte sul ruolo dell’Italia

Come nel caso Russiagate non è emersa prova di una collusione tra la Campagna Trump e la Russia, ma al contrario stanno emergendo sempre più indizi di una triangolazione dell’amministrazione Obama con agenzie e singoli stranieri (Italia, Regno Unito, Australia) per fabbricare il predicato, qualcosa di molto simile sta accadendo nell’ultimo caso, il cosiddetto Kievgate, che ha addirittura portato la speaker della Camera Nancy Pelosi ad annunciare l’avvio di una procedura di impeachment, e che, come vedremo, è strettamente legato al primo.

Ormai, infatti, c’è una surreale costante in tutti questi casi, che ovviamente non emerge dai resoconti dei media mainstream, soprattutto italiani: Trump viene accusato dai Democratici e dai media a lui ostili delle stesse identiche nefandezze che in realtà i Democratici e l’amministrazione Obama hanno già commesso, o vi sono fondati motivi di credere che abbiano già commesso contro di lui, ovvero sollecitare interferenze straniere per danneggiarlo prima e delegittimarlo poi, una volta eletto.

Il presidente Trump è accusato di aver chiesto l’aiuto del governo di un altro Paese, stavolta quello ucraino, per danneggiare i suoi avversari politici e favorire quindi la sua rielezione nel 2020. Incriminante sarebbe la telefonata Trump-Zelensky del 25 luglio scorso, portata alla luce da un whistleblower. Per ottenere la collaborazione del presidente Zelensky, infatti, pochi giorni prima della telefonata avrebbe congelato un pacchetto di aiuti all’Ucraina, anche se di questo do ut des nella conversazione telefonica non c’è traccia. Ci sono, invece, nella trascrizione diffusa dalla Casa Bianca, le parole “fammi un favore”. Ma il “favore” richiesto non è, come erroneamente riportato da praticamente tutti i media, quello di indagare su Biden o il figlio Hunter, un caso “orribile” cui Trump accenna una sola volta, quasi en passant, e su cui comunque torneremo. Non è Biden la principale preoccupazione dei Democratici, né quella del whistleblower dalla cui denuncia è partito tutto.

Trump chiede a Zelensky di cooperare con l’Attorney General Usa, William Barr, sul ruolo dell’Ucraina nelle origini del Russiagate, per capire se nelle presidenziali del 2016 interferenze straniere ci siano state, ma ai suoi danni, e se tutto sia partito proprio da Kiev, come alcuni elementi lasciano supporre. Nella telefonata Trump cita la CrowdStrike, una società incaricata dal Comitato Nazionale Democratico di indagare sull’hackeraggio dei propri server durante la campagna 2016, poi attribuito alla Russia. Ma la società non ha mai consegnato fisicamente i server all’FBI e uno di questi, che scagionerebbe Mosca, sarebbe nascosto proprio in Ucraina da uno dei fondatori della CrowdStrike, Dmitri Alperovitch. In effetti, entrare in possesso fisicamente dei server non è necessario, o almeno non è la procedura usuale, per le analisi forensi. Basta una copia del contenuto. Che però, in questo caso, è stata prelevata non direttamente dall’FBI, come la delicatezza estrema delle circostanze avrebbe forse consigliato, ma da una società privata incaricata da chi ha denunciato l’hackeraggio – in questo caso un soggetto potenzialmente mosso da finalità politiche (per esempio, quella di ricondurre in capo al proprio avversario la responsabilità ultima o il cui prodest dell’accaduto).

Ma non è il solo elemento che potrebbe collegare l’Ucraina alle origini del Russiagate. Nel suo recente libro “Ball of Collusion”, Andrew McCarthy descrive alcune delle numerose prove che dimostrano come all’inizio del 2016 le stesse agenzie dell’amministrazione Obama che avrebbero poi collaborato intensamente al Russiagate abbiano esercitato pressioni sulle loro controparti di Kiev perché riprendessero una vecchia indagine per corruzione su Paul Manafort, legato all’ex presidente filo-russo Yanukovich, appena appreso da fonti ucraine del suo imminente ingresso nella Campagna Trump. Funzionari ucraini si stavano di fatto intromettendo, su richiesta dell’amministrazione Obama, nelle presidenziali Usa.

Ancora più concreti forse gli elementi che collocano le origini del Russiagate in Italia, come abbiamo cercato di ricostruire su Atlantico con il nostro Speciale Italygate. Visto il modo in cui ne ha parlato al telefono con il presidente ucraino Zelensky, appare molto probabile che Trump abbia avuto una conversazione simile con il suo amico Giuseppi, il nostro presidente del Consiglio Conte, a proposito del ruolo di Joseph Mifsud – il professore maltese che ha adescato proprio a Roma, alla Link Campus University (che si occupa di alta formazione per agenzie di sicurezza ed intelligence occidentali), l’allora consigliere della Campagna Trump George Papadopoulos, per riferirgli che i russi avevano materiale “dirt” su Hillary Clinton. Una delle patacche da cui però è formalmente partita, il 31 luglio 2016, l’indagine dell’FBI sul Russiagate. Per altro, l’Attorney General William Barr – con il quale Trump ha chiesto a Zelensky di cooperare – sarebbe stato in Italia per incontri ufficiali proprio in questi giorni (all’incirca dal 25 al 27 settembre) così incandescenti a Washington. Quale il motivo della sua missione, rimasta segreta fino all’ultimo? Possiamo solo azzardare un’ipotesi: Mifsud e il ruolo dei governi italiani di allora, Renzi e Gentiloni.

“L’uso di capacità di intelligence straniere e di controspionaggio contro una campagna politica americana è per me senza precedenti e una seria linea rossa che è stata superata”, ha dichiarato lo stesso Barr in un’intervista alla Cbs, confermando che “ci sono state attività di controintelligence contro la Campagna Trump” e precisando: “Non sto dicendo che non vi fossero le basi, ma voglio vedere quali erano e assicurarmi che fossero legittime”.

Ancora più duro ed esplicito, su Fox News, l’ex sindaco di New York e ora tra i legali del presidente, Rudy Giuliani, che nel confermare come le indagini dell’ispettore generale Horowitz e del procuratore Durham si stiano concentrando non solo sulla condotta dell’FBI ma anche sul ruolo di governi stranieri alleati, ha parlato di “crimini scioccanti, che colpiscono al cuore la nostra Repubblica”:

“Avevano un piano per impedire che il candidato repubblicano venisse eletto e poi hanno messo in atto un piano per rimuoverlo dalla carica sulla base di false prove e false testimonianze. Il tutto inventato dall’inizio e venduto al 90 per cento dei nostri media. Una tragedia!”

E ancora:

“Ci sono molte prove di ciò che è accaduto in Ucraina. Numerose prove di ciò che è accaduto nel Regno Unito, e in Italia. Questa è stata una enorme cospirazione per cercare di privare il popolo americano della persona che ha eletto presidente”.

Un piano a cui alcuni governi alleati si sarebbero prestati, nella convinzione, probabilmente, che avrebbe comunque vinto Hillary Clinton.

Sarebbero una decina i gruppi di documenti che potrebbero essere molto presto declassificati e divulgati, secondo quanto riportato da John Solomon su The Hill, e che “potrebbero aiutare a spiegare le recenti dichiarazioni del procuratore generale William Barr”, scrive Solomon. Uno di questi in particolare riguarda il ruolo svolto da governi alleati – Regno Unito, Australia e Italia – cui venne chiesto di assistere l’FBI nei suoi sforzi per trovare connessioni fra Trump e la Russia.

Pensate, ora, cosa potrebbe venir fuori se i governi attuali di quei Paesi collaborassero con il procuratore Barr, come Trump ha chiesto di fare al presidente ucraino Zelensky e, probabilmente, al premier italiano Conte.

E questo ci riporta alla denuncia del whistleblower riguardante la telefonata Trump-Zelensky. Non sappiamo chi sia, secondo qualcuno un funzionario della Cia vicino all’ex direttore Brennan. Sappiamo che il suo legale, Andrew Bakaj, ha lavorato in passato per l’ispettore generale della Cia, per il Dipartimento di Stato, per diversi senatori democratici, tra cui Hillary Clinton. Ma più importante del “chi”, è il “come”. Non ha assistito alla telefonata incriminata, nella sua denuncia riporta informazioni indirette, di seconda mano, molte delle quali non confermate dalla trascrizione diffusa. E soprattutto, guarda un po’, tra il maggio 2018 e l’agosto 2019, l’Intelligence Community ha segretamente eliminato il requisito secondo cui i whistleblowers devono avere una conoscenza diretta, in prima persona, degli illeciti che denunciano. Le proprietà del nuovo “Disclosure of Urgent Concern” form, scrive Sean Davis su The Federalist, indicano che è stato caricato il 24 settembre, poche ore prima cioè che la denuncia del whistleblower contro Trump fosse declassificata e resa pubblica, mentre i riferimenti a fondo pagina che è stato revisionato ad agosto 2019. Sul precedente modello, invece, era specificato “The Intelligence Community Inspector General cannot transmit information via the ICPWA (Intelligence Community Whistleblower Protection Act, ndr) based on an employee’s second-hand knowledge of wrongdoing”.

Capite che, a questo punto, Joe Biden è il piatto di contorno.

“Ah, un’altra cosa…”. Così nella telefonata Trump introduce a Zelensky il caso dei Biden, ma nell’economia dell’intera conversazione è chiaro che si tratta di una questione del tutto laterale.

Surreale comunque è che Trump sia accusato di aver chiesto l’aiuto di Zelensky dietro la minaccia di bloccare i fondi Usa all’Ucraina, quando è esattamente ciò che Biden si vanta di aver fatto, quando era vicepresidente, per ottenere il licenziamento del procuratore generale ucraino Viktor Shokin.

Ma procediamo con ordine. L’Ucraina è tuttora un Paese estremamente dipendente dagli Stati Uniti e, quindi, anche il suo nuovo presidente è sensibile alle pressioni della Casa Bianca. Ma mai quanto nel 2016, dopo la caduta del filo-russo Yanukovich e in piena offensiva russa (la Crimea era già andata), il nuovo governo ucraino di Poroshenko dipendeva finanziariamente e militarmente dall’amministrazione Obama. Nel marzo del 2016, l’allora vicepresidente Usa Biden, delegato dal presidente proprio alle relazioni con Kiev, minacciò Poroshenko di bloccare un prestito da un miliardo di dollari se non avesse licenziato il procuratore generale Shokin, che aveva aperto un’indagine per corruzione su Burisma, una compagnia energetica nel cui cda sedeva il figlio di Biden, Hunter, generosamente compensato per non meglio precisati meriti se non il suo cognome.

È lo stesso Biden, in un video del 2018, a raccontare cosa disse a Poroshenko per ottenere la rimozione del procuratore generale sgradito.

“I’m leaving in six hours. If the prosecutor is not fired, you’re not getting the money. Well, son of a bitch. He got fired. And they put in place someone who was solid”.

E con questo la sua fama di “family man” assume tutt’altre sfumature. Ma chiaramente Biden non collega la sua “estorsione” a Poroshenko all’indagine su Burisma. Sostiene che il procuratore generale era corrotto e inetto, e che la richiesta di una sua rimozione era sostenuta anche da altri Paesi alleati occidentali. Può ben darsi, ma il suo conflitto di interessi personale è nei fatti. A ottenere il licenziamento avrebbe dovuto essere qualcun altro, magari il presidente Obama in persona.

Nel marzo del 2016, l’ufficio del procuratore generale ucraino aveva infatti ancora due indagini aperte su Burisma, una per reati fiscali e una per corruzione, secondo quanto riporta John Solomon su The Hill, e avrebbe potuto interrogare Hunter Biden in piena campagna per le presidenziali 2016. La stessa compagnia ha reso noto che non si risolsero prima del gennaio 2017. Centinaia di pagine di documenti dello stesso team legale Usa che aiutò Burisma a uscirne, citati da Solomon, contraddicono la versione di Biden. Per esempio, i rappresentanti legali americani della compagnia incontrarono funzionari ucraini subito dopo il licenziamento di Shokin, offrendo le loro “scuse per la diffusione di falsa informazione da parte di rappresentanti e figure pubbliche Usa” sui procuratori ucraini, si legge negli appunti ufficiali del governo di Kiev. Perché, se il motivo della rimozione era la sua corruzione e incapacità, porgere le loro scuse e definire queste accuse “falsa informazione”?

È certo che la faccenda si tramuti anche in un vantaggio elettorale per il presidente Trump, riguardando il suo possibile sfidante nel 2020, ma ciò non significa che non sia rilevante e non debba essere approfondita e indagata. C’è un possibile reato, o una condotta gravemente inappropriata da parte di un ex funzionario di altissimo grado dell’amministrazione Usa – che coinvolge uno stato estero ed è di tutta evidenza di interesse nazionale – e l’amministrazione attuale dovrebbe chiudere entrambi gli occhi, lasciar correre, perché indagare lo danneggerebbe politicamente avvantaggiando il presidente in carica?

Insomma, in gioco per i Democratici c’è molto di più della carriera di Biden. Un piccolo sacrificio, se serve a impedire al presidente Trump e ai suoi uomini di risalire alle origini del Russiagate, che potrebbero trovarsi in Ucraina, in Italia, nella collusione tra la Campagna Clinton, il DNC, l’amministrazione Obama e governi stranieri alleati. Quando qualcuno ha saputo che Trump aveva parlato con Zelensky della CrowdStrike, dev’essere scattato l’allarme rosso tra i funzionari di Cia e Dipartimento di Stato ancora fedeli a Obama e all’ex direttore Brennan. Anche perché non ci sono più Comey e Mueller a coprire…

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