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Theresa la Dorotea, disastro tory sulla Brexit

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Secondo un sondaggio di ieri del sito Britain Elects, il 70% degli elettori britannici disapprova come il governo di Theresa May sta trattando l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Questo nel giorno in cui il ministro preposto a trattare con Bruxelles, David Davis, e il Foreign Secretary, Boris Johnson, si sono dimessi dal governo in disaccordo con il piano per una Brexit a loro avviso troppo soft approvato lo scorso sabato ai Chequers nella riunione-fiume – vietati pure i cellulari! – convocata da May. Altri brexiteers sembrano destinati a lasciare la compagine di un governo che già si regge su una maggioranza esigua e l’appoggio degli unionisti del DUP.

Nonostante abbia fatto trapelare che “continuerà a combattere per la sua premiership” e che “cercherà con ogni forza di opporsi a una mozione di sfiducia nei confronti del suo governo”, i giorni della seconda premier donna al vertice del Regno Unito sembrano contati. Theresa May, la “bloody difficult woman”, la “donna maledettamente difficile”, così come l’avevano definita gli stessi suoi colleghi di partito, più che dedicarsi ostinatamente a portare a termine il voto espresso dai cittadini d’Oltremanica il 23 giugno 2016, sta cercando di bilanciare ogni sua parola, ogni suo gesto, ogni sua valutazione sulla Brexit nell’improbabile tentativo di tenere insieme le anime inquiete di un partito che da 30 anni si autoflagella sul rapporto tra il Regno e l’Unione, nel tipico esempio di scontro tra Nazione e Sovranazione ormai in atto in Occidente. Se Margaret Thatcher aveva capito con lungimiranza le trappole nascoste in una “ever closer union” politica a trazione franco-tedesca, e John Major dovette fronteggiare i Maastricht Rebels, gli ultimi due premier conservatori, David Cameron e Theresa May hanno visto la definitiva implosione di un partito in cui l’Europa è spesso stata l’argomento per portare avanti carriere, distruggere leadership, e spostarne il baricentro un po’ più a destra o un po’ più a sinistra. Theresa “la dorotea”, il cui regno avrà presto fine, sembrava proprio la scelta di compromesso tra le due fazioni, una John Major degli anni 2000: remainer riluttante – e poco visibile – ai tempi del referendum, leaver per necessità ex post. La carta da giocare dalla maggioranza del partito pro-remain per una brexit spuria.

Il leadership challenge, e forse anche le elezioni, non sembrano lontane: il fallimento della snap election del 2017, quando il suo governo “strong and stable” restò solamente un miraggio persosi in una campagna elettorale fiacca e incoerente, sta lasciando il segno sulla sua maggioranza di governo. May ha centralizzato a Downing Street le trattative sulla brexit con Bruxelles, e la notizia delle dimissioni di Davis era nell’aria. Si sussurra che Boris Johnson abbia deciso di dimettersi per non farsi scavalcare a destra, tra i brexiteers duri e puri proprio da Davis. Per BoJo un altro coup de théatre, degno di un dramma shakesperiano: molti hanno raccontato che sabato non ha voluto rinunciare al brindisi con il premier per celebrare il buon esito della riunione di governo sulla brexit. Al bubbly Johnson non dice mai no, e chissà se starà tenendo in frigo un’altra bottiglia per il futuro…

Un futuro che potrebbe prendere forma e visione a brevissimo termine: basta una lettera di 48 deputati del partito Conservatore al 1922 Committee per scatenare un voto, dagli esiti imponderabili, sulla leadership del partito. Se dopo il voto di tutti i 316 deputati May avesse la maggioranza, rimarrebbe, altrimenti ci sarebbe il leadership contest e lì la battaglia sarebbe infernale. Un tutti contro tutti da cui i Tories potrebbero uscire con le ossa rotte e con il rischio di consegnare il Paese al Labour di Jeremy Corbyn.

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