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Tre indizi fanno una prova: Usa e Iran si parlano, la strategia di Trump sta funzionando

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Diversi indizi fanno una prova, ma nelle relazioni internazionali bisogna essere bravi a coglierli, perché molto spesso sono nascosti dalla fog of war, dai toni e dagli scambi verbali anche violenti. Parliamo in questo caso dello scontro tra Stati Uniti e Iran, che si sta lentamente raffreddando nonostante le parole offensive che le due parti si rivolgono praticamente ogni giorno.

E se lo scontro si raffredda, è grazie al fatto che, in poche parole, Trump sta vincendo e l’Iran sta perdendo. Tra i motivi, le sanzioni, la crisi economica iraniana, le difficoltà e i rapporti tesi con Mosca in Siria, il nuovo governo in Iraq e ovviamente le drammatiche conseguenze del coronavirus.

Ma parliamo degli indizi che fanno una prova: in primis le petroliere iraniane giunte in Venezuela in queste settimane, arrivate con enorme clamore mediatico e accolte a Caracas con giubilo. Ora, al di là delle diverse posizioni sulle sanzioni all’Iran, qualcuno davvero pensa che se Trump avesse voluto sbarrare la strada alla Repubblica Islamica, in casa propria, ovvero nelle proprie acque geopolitiche, non ci sarebbe riuscito? Veramente qualcuno pensa che l’Iran avrebbe potuto reagire con misure che sarebbero andate oltre le proteste e qualche provocazione a bassa intensità nello Stretto di Hormuz (dove Trump ha già dato ordine di sparare alla prima provocazione)? È evidente quindi che gli Stati Uniti hanno lasciato fare, per permettere a Teheran di continuare ad esportare il suo greggio – visto che neanche la Cina ormai lo compra quasi più – e per salvare la faccia mediaticamente, sventolando la bandiera rivoluzionaria ormai quasi destinata alla pensione.

Secondo indizio: qualche mese addietro il regime iraniano aveva dato la sua piena disponibilità a trattare il rilascio dei detenuti americani (in cambio di detenuti iraniani) senza precondizioni. Il 2 giugno gli Stati Uniti hanno rilasciato lo scienziato Cyrus Asgari, arrestato nel 2016 con l’accusa di spionaggio. Il 4 giugno quindi, l’Iran ha rilasciato l’ex marine americano Michael White, detenuto anche lui con le stesse accuse.

In ultimo il terzo indizio: Teheran ha firmato un accordo per esportare elettricità in Iraq, valevole per due anni. Ora, in Iraq è appena arrivato al potere l’ex capo dei servizi segreti, Mustafa al-Khadimi, che nel suo programma di governo non ha inserito la richiesta di ritiro delle forze americane e che – come ha informato il nostro vice ministro degli esteri, Marina Sereni, in audizione al Senato – ha già previsto un dialogo strategico tra Baghdad e Washington (la cosa ovviamente interessa anche l’Italia per il ruolo che le forze armate italiane hanno nell’addestrare quelle irachene). È chiaro, quindi, anche in questo caso, che gli Stati Uniti stanno lasciando fare, per permettere all’Iran di non capitolare economicamente definitivamente.

Insomma, si conferma quella che è la vera strategia di Donald Trump, quella che il presidente americano ha delineato dall’inizio: un nuovo accordo con Teheran, che inserisca tutti i punti che il Jcpoa non toccava. Ovvero il programma missilistico, la postura regionale dell’Iran e le stesse linee rosse da rispettare per garantire la sicurezza di Israele. Nel programma di Trump, quindi, non c’è alcun regime change, non volontariamente almeno (se poi fosse il frutto delle proteste interne in Iran, allora sarebbe ovviamente cosa diversa).

Perché il nuovo accordo abbia qualche chance, però, è ovviamente necessario aspettare novembre e vedere se The Donald verrà rieletto. Sarà allora che molti attori che, in questi mesi, giocano al tiro alla fune con la Casa Bianca, saranno costretti a scoprire le loro carte. E non è detto che, tra questi attori, non ci sia qualcuno che – senza poterlo ammettere in pubblico – non faccia proprio il tifo per l’attuale presidente americano…

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