La situazione è desolante: strade deserte, un silenzio rotto solamente dal suono delle volanti che pattugliano le città e il timore di essere fermati con qualsiasi pretesto da un agente incapace – per abuso o per l’arbitrio che viene a determinarsi in mancanza di regole certe e contrappesi – di comprendere quali diritti quella stessa Costituzione che ha scelto di difendere garantisca agli individui. Tutti noi in questi giorni proviamo la sgradevole sensazione di vivere in uno stato di polizia.
Il cittadino nell’arco di qualche decreto amministrativo (strumenti che di norma si utilizzano per tinteggiare le pareti dei ministeri) si è trasformato in suddito, le sue libertà prima compresse e poi azzerate in nome di un paternalismo di Stato che si attribuisce il compito di decidere quali siano gli amici veri o presunti, gli affetti necessari e quelli secondari, le relazioni stabili e quelle superficiali, i bisogni primari e quelli non primari, persino quali settori dell’economia debbano sopravvivere e quali morire.
La scelta che prima di qualsiasi regolamentazione sociale ed economica è stata fatta ha riguardato il tipo di approccio da adottare nei confronti del cittadino: si è dovuto scegliere se trattarlo come soggetto passivo da guidare, oppure da individuo responsabile e libero. È stato deciso, nel solco di una consolidata tradizione di pedagogismo di Stato, di adottare la prima, ma nel lungo periodo la responsabilità personale sarà l’unico ingrediente utile a creare una società sostenibile, perché come scriveva R. Kirk “se vuoi avere ordine nel Commonwealth, devi prima avere ordine nell’anima individuale”.
Le società responsabili sopravvivranno, le altre periranno qualunque sarà il numero di norme e divieti messi in campo dai propri governi, perché la vera componente irrinunciabile per una democrazia matura è la cittadinanza responsabile e gli italiani hanno dimostrato lungo questi sessanta giorni di meritare quella libertà di discernimento.
E allora rivendichiamo con forza una “fase 2” che tenga in considerazione che non si muore solo di virus, ma anche di disoccupazione e povertà.
Si muore in mancanza di fondi per la sanità e per le grandi opere di messa in sicurezza del territorio. Si muore ogni giorno negli appartamenti delle periferie delle nostre città in assenza di sanità psichica, oltre che fisica.
Si muore per la costrizione di dover vivere in balia di uomini o donne violenti, fisicamente o verbalmente. Si muore assieme alle nostre libertà fondamentali in presenza di uno statalismo assolutista impropriamente riesumato dal XVII secolo.
#TorniamoLiberi non è l’hashtag di chi desidera vanificare quanto fatto sin qui, o veder scivolare nel caos questo Paese, ma l’invito di chi chiede al governo due cose: condizioni precauzionali da adottare e strumenti per controllare che vengano rispettate. Qualunque cittadino o attività produttiva debbono essere lasciati liberi di ripartire purché rispettino quelle condizioni di precauzione, senza assurde distinzione fra affetti o professioni che finiscano per discriminare categorie come parrucchieri, artigiani, balneari, estetisti, artisti, ballerini, architetti, ristoratori, albergatori, fioristi, florovivaisti e molti altri piccoli e medi imprenditori.