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We don’t speak English, non solo Di Maio: non sappiamo e non vogliamo parlarlo

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Il web non lascia scampo e restituisce subito reperti che tracciano il solco. Luigi Di Maio non aveva ancora prestato giuramento come nuovo ministro degli esteri che ecco circolare un video che lo riprende ospite ad Harvard due anni fa, alle prese con il discorso di ringraziamento per l’invito ad un convegno dell’università americana. Una prestazione insufficiente, dettata magari anche dall’emozione per il prestigioso ambiente che lo circonda o per il fatto di aver rimesso piede nel mondo accademico dopo i precedenti poco brillanti. O perché l’inglese proprio non lo mastica. L’ironia non ha fatto prigionieri come già accaduto con un’altra vittima illustre quale Matteo Renzi. Si tranquillizzi Di Maio e si rassegnino i critici italiani: non è e non sarà l’ultimo politico di spicco ad aver grossi problemi con questa lingua.

Il perché è presto detto: in Italia l’inglese è un’ossessione come lo sono il taglio della spesa pubblica, le riforme, le infrastrutture, l’abbassamento delle tasse. Come immancabilmente il debito aumenta, le riforme ristagnano, le strade e le linee ferroviarie impiegano anni per vedere la luce e i contribuenti piangono sangue, allo stesso modo gli italiani vanno a sbattere contro lo scoglio della lingua inglese. Siamo in fondo alla classifica dei paesi europei secondo l’indice redatto da EF Education, nota società nel campo della vacanze studio e dei corsi di lingua aziendali, davanti giusto ai cugini francesi che dall’alto della loro grandeur non si sentono probabilmente obbligati a padroneggiare l’idioma dell’altra riva della Manica – dopo tutto hanno speso secoli ed energie a fare la guerra con la corona britannica e i retaggi storici hanno un certo peso, anche in Italia. Nelle parole della classe dirigente, degli uomini di cultura e di spettacolo ambiamo a tornare quella grande nazione che fummo nel campo della letteratura e dell’arte, dell’industria e della tecnologia, dell’imprenditoria e dell’innovazione e ci si diverte a sbeffeggiare i tedeschi e le loro aziende automobilistiche perché se non fosse stato per il motore a scoppio made in Italy oggi produrrebbero biciclette (“Audi, cicci! Se non ci fossimo stati noi italiani… “, sentenziava un tronfio Maurizio Crozza dal palco di Sanremo 2014), o i cugini d’Oltralpe per il nostro vino, colpiti da un misterioso virus per cui se non siamo più quelli di una volta, è per forza colpa degli altri. Salvo poi lamentarci della burocrazia e delle lungaggini giudiziarie che ingolfano l’iniziativa privata e non porvi mai rimedio perché in Italia ciò che è ossessione si tramuta per l’appunto in un nulla di fatto. Secondo l’Aibe Index, che misura l’attrattiva italiana per gli investitori esteri, il peso normativo e burocratico – abbinato a quello fiscale e alla lentezza delle sentenze – è fattore determinante nella scelta su quale nazione puntare per gli operatori stranieri e quindi non godiamo di ottima salute, ma pare non importare granché dal momento che, colmi di spirito autarchico, siamo convinti di potercela fare da soli. Dunque a cosa occorre sapere l’inglese, la lingua internazionale degli affari?

Sarà per questo che la scuola si ostina a puntare sulle sole regole grammaticali e poco sulla loro applicazione costante, parlata e scritta, sulla pronuncia e sulla fluidità nel tenere una conversazione: al massimo ce la caveremo con i gesti, arte della sopravvivenza in cui siamo campioni del mondo. Salvo poi ricordare agli studenti che “con l’inglese si va ovunque”, ma stando ai numeri elaborati da Eurostat l’88 per cento dei ragazzi italiani tra i 15 e i 24 nel 2017 non aveva trascorso nemmeno un giorno all’estero. Tanto vale quindi non disperarsi per raggiungere gli obiettivi massimi del Qcer, il Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue, e accontentarsi di un semplice A1, il livello base. Per lo meno garantisce visibilità mediatica. “E ora ragazzi aprite il libro che ripassiamo il Simple Present, as usual”. “Eh?!”

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