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“Euroinomani”: un saggio lucido e coraggioso di Alessandro Montanari contro il pensiero unico eurista

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C’è un libro, uscito in estate, che merita davvero di essere letto con attenzione. Si intitola “Euroinomani”, ed è un saggio di Alessandro Montanari, giornalista e autore televisivo che può a buon diritto rivendicare il merito di essere stato tra i pochi e tra i primi ad aver percepito da anni un rumore di sottofondo destinato a diventare roboante colonna sonora: l’ascesa dei populisti, la critica all’Euro e a questa Ue, la disfatta imbarazzante delle vecchie élites e di un establishment cieco, sordo, arrogante.

L’invenzione linguistica del titolo (“Euroinomani”) dice molto: non è solo un gioco di parole, ma una diagnosi. Un po’ tossicodipendenti, un po’ spacciatori, un po’ trafficanti, gli uomini (e le donne) del pensiero unico continuano a ripetere da anni, come un mantra, che “ci vuole più Europa”. Questa Europa non funziona? E allora datecene di più. Fa male quello che pretende di fare? E allora fatele fare più cose. La terapia è sbagliata? Aumentiamo il dosaggio.

Non c’è solo efficace sarcasmo: c’è – vale la pena di ribadirlo – una lettura corretta e lucidissima sui fallimenti della costruzione europea. E ancora più corretta, a mio modo di vedere, è la denuncia di un atteggiamento ideologico, fideistico, privo di dubbi e sfumature. Strano destino, quello degli “eurolirici”: per tanti altri aspetti della loro vita, hanno (bene!) un’inclinazione scettica, una propensione al dubbio, al pensiero critico; ma quando invece si passa all’Ue, scatta un atteggiamento dogmatico. Ogni dubbio, ogni obiezione è respinta con lo stesso zelo con cui gli Inquisitori cercavano – e trovavano – eresie ed eretici da mandare al rogo. La cosa è a maggior ragione imbarazzante (Montanari lo scrive meritoriamente in un capitolo del saggio) se si considera l’elenco dei Premi Nobel, di orientamenti culturali diversissimi fra loro, che avevano messo in guardia sull’anomalia dell’esperimento dell’Euro. Ma nessuno ha voluto ascoltarli.

Analoghi gol a porta vuota (ma sono gol facili se visti con gli occhi di oggi: ancora pochi anni fa non era così) sono quelli che Montanari segna contro i parametri europei (a partire dal famigerato 3% nel rapporto deficit/Pil), a lungo venerati come totem sacrali, e contro una strana eppure diffusissima fascinazione verso la Germania, vista da molti politici italiani come la depositaria di ogni virtù, il luogo della legittimazione di leadership e governi, oltre che come la locomotiva a cui obbligatoriamente agganciarsi, a qualunque costo.

Eppure non si contano i casi – annota Montanari – in cui è stata proprio Berlino a svincolarsi (ma per se stessa, a proprio vantaggio) dalle regole europee. E soprattutto è stata la Germania a capovolgere (economicamente e geopoliticamente) le ragioni stesse per cui la costruzione europea era sorta dopo la Seconda Guerra Mondiale: l’obiettivo doveva essere “europeizzare” la Germania,  non “germanizzare” l’Europa, non fare di un continente il giardino di casa dei tedeschi, o la prateria entro cui far correre il loro surplus.

Montanari coglie anche un punto rilevantissimo in termini sociali: si sente spesso parlare di un “ascensore sociale” rotto, ma in realtà è stato manomesso. Ancora due o tre decenni fa, pur nel quadro di fisiologiche disuguaglianze, non c’era una divaricazione quasi “antropologica” tra classi elevate e ceto medio e medio basso. Oggi è invece così: è il tema che negli Stati Uniti, prima dell’avvento di Trump, fu coraggiosamente evocato da Charles Murray nel suo “Coming Apart”. Una “upper class” non solo (naturalmente) più benestante degli altri, ma ormai separata, diversa, lontana, rispetto alla “lower class”. E addirittura con una tendenza dei primi a giudicare i secondi, a disprezzarli: innescando, senza rendersene conto, processi di vendetta di cui il cosiddetto voto “populista” sarebbe stato l’esito naturale, inevitabile, per molti versi giustificatissimo. E quelle stesse élites che non hanno capito per tempo, ora si permettono perfino il lusso di colpevolizzare gli elettori, di dar loro degli analfabeti, anziché riflettere autocriticamente sulla propria incapacità di mettere a fuoco la realtà.

Un saggio assolutamente da leggere, dunque. Una sola notazione critica, una rispettosa perplessità: sul banco dei cattivi, ripetutamente, Montanari mette anche i “liberisti”, anzi i “neoliberisti”. Ora, purtroppo è dolorosamente vero che molti liberisti (specie in Italia), non si comprende per quale vena masochistica, si sono messi a fare i cantori acritici di Bruxelles: ma è pur vero (Montanari lo annota correttamente) che il primo e più feroce critico scientifico del progetto dell’Euro è stato il padre del liberismo moderno, Milton Friedman, e che la più grande e coraggiosa leader politica dell’ultimo quarantennio, la liberista e conservatrice Margaret Thatcher, è stata nemica assoluta dell’europeismo ideologico e accentratore.

Ecco, è esistito ed esiste anche un euroscetticismo liberale, al quale in pochi (ma buoni) ci iscriviamo, e non da ora: di chi vede in Bruxelles un progetto statalista (anzi: superstatalista), di chi ha il
terrore dell’omogeneizzazione fiscale (detta “armonizzazione”) e crede invece nella competizione fiscale, di chi è euroscettico proprio in nome di una limpida visione liberale. Forse anche costoro (oso dire: forse anche noi) hanno e abbiamo diritto di cittadinanza.

Ma, a maggior ragione con questa diversa impostazione ideale, il libro di Montanari merita ogni attenzione e un sincero plauso.

“Euroinomani”
di Alessandro Montanari
Uno Editori, 2018

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