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“Mi chiamo Francesco Totti”: attenzione, il film di Infascelli può nuocere gravemente alla resistenza emotiva

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A dire il vero ero un po’ scettico all’inizio. Non mi sono mai piaciute le agiografie in vita. Nemmeno dei personaggi più grandi. Poi, vinta la resistenza del mio snobismo anti-nazional popolare, mi sono cimentato nella visione. Una vera sorpresa. È chiaro: il mio, come quello di altri romani e romanisti, è un giudizio favorito dall’appartenenza calcistica, dal tifo, da una romanità che più che caratteristica è pura patologia. Ma tant’è.

La scelta più azzeccata non è soltanto l’uso delle immagini di repertorio gentilmente messe a disposizione dalla famiglia Totti. È la voce di Francesco che fa la differenza in questa narrazione di una vita ‘normale’. Di un ragazzo di Roma come gli scrittori, i registi, gli sceneggiatori ne hanno raccontati tanti, in questi anni, che a un certo punto, dalla sua vita semplice di sconosciuto diventa il Numero Uno nel suo sport preferito, con la maglia della sua squadra del cuore, nella sua città. Una favola che nemmeno il migliore (o peggiore) scribacchino sentimentalista avrebbe potuto immaginare.

Mi sono commosso, lo ammetto, nel vedere le immagini del campo sportivo della Fortitudo negli anni ’80, poi del Francesca Gianni (il campo della Lodigiani a san Basilio), dove anche il sottoscritto, con minor fortuna, fece in quegli stessi anni un suo provino. Perdonatemi se in questa recensione sono anche autoreferenziale ma il sentimento trasborda e le emozioni vissute mi risultano incontenibili. Mi sono commosso nel rivedere quella Roma che non c’è più, che ho tentato di descrivere ne “L’ultimo singolo di Lucio Battisti”, che diversi film ancora non riescono a cogliere. Quella Roma dello scudetto del 1982 invasa di gente e bandiere ed entusiasmo e che Francesco bambino ricorda come un meteorite sfolgorante. Un Francesco che diventa saggio quando afferma che il destino esiste e lo riconosci quando è all’opera; e lui lo avrebbe riconosciuto 19 anni dopo quando quelle stesse emozioni, quelle sfilate di tifosi, quelle gioie urlate a squarciagola ce le avrebbe fatte rivivere proprio lui col terzo scudetto.

La vita privata e la vita pubblica di Francesco Totti (ragazzo normale e poi fidanzato di Ilary e papà e calciatore), come tutte le vite dei grandi, sono inevitabilmente interconnesse. Il film le sa rendere con delicatissimo equilibrio. Francesco le sottolinea nei suoi passaggi in romanesco (a tratti irresistibili): “Ce sarà un giorno fino a che moro che potrò esse’ ‘na persona normale, a vede’ un monumento in giro senza che me fermano per fa ‘na foto o ‘n’autografo?”. Roma non ha reso Francesco un monumento come erroneamente si crede, Francesco era già un monumento nel suo sport (e nel suo modo di portare la romanità in quello sport) e la città lo ha semplicemente riconosciuto. E lo ha eretto. Nonostante, sottolineo, i rosiconi che lo hanno offeso e umiliato per anni fino a imbrattare uno dei suoi murales più belli, quello alla Madonna dei Monti.

Esistono cd, video, collezioni infinite su tutti i suoi gol più belli, le sue gesta assolute sul prato verde; il suo modo di toccare la palla, la sua forza nel calciare, il suo genio intuitivo, l’unicità nel saper anticipare le mosse degli avversari e mettere un compagno nella condizione migliore. Il film di Alex Infascelli fa altro; ci restituisce un campione uomo che non ha mai smesso di essere prima un ragazzo semplice (non di borgata perché Porta Metronia è San Giovanni, quindi un ragazzo del cuore pulsante di Roma) e poi un fuoriclasse del gioco del calcio, riverito da altrettanti campioni come Messi, Maradona, Luis Fico, Falcao e tanti altri.

Bella la descrizione del suo rapporto col precedente capitano della Roma, altra bandiera di romanità; Giuseppe Giannini, di cui da ragazzino era un tifoso e con cui a un certo punto si ritrova a giocare assieme. Il film ci riporta a momenti incredibili; il rigore sbagliato dal ‘Principe’ durante il derby del 1994, la sorpresa che gli fa presentandosi alla sua festa di compleanno di diciott’anni. E poi c’è la parte che solo i romani possono sentire, e in parte capire; le vacanze a Torvaianica, le comitive, le uscite del sabato sera in discoteca, le goliardate, le domeniche in curva, quando non c’erano i tornelli e i Daspo e gli striscioni politicamente corretti; o quando i tifosi si assiepavano a Trigoria seduti sul muretto e se gli rodeva il culo venivano a insultarti fin dentro la macchina (successo proprio a Giannini dopo il rigore sbagliato contro la Lazio). “Mi chiamo Francesco Totti” è una piccola gemma del cinema documentaristico di casa nostra. Chi ha superato i quaranta dovrebbe vederlo sapendo che può nuocere gravemente alla resistenza emotiva. Chi invece è tifoso della Roma va avvertito che le scene finali dell’addio del Capitano in quel 28 maggio 2017 possono nuocere gravemente ai fazzoletti di carta (preparatene tanti). Preziosa la colonna sonora che accompagna Totti in campo durante la sua ultima partita all’Olimpico. “Solo” di Claudio Baglioni è una scelta talmente azzeccata che da sola riempie lo schermo senza bisogno di commenti.

Unica nota stonata, a mio avviso, sulla vicenda del conflitto con l’ultimo Spalletti è un pochino troppo sbilanciato. Sembra davvero che l’allenatore toscano sia arrivato a Roma nel 2015 per accompagnare Francesco alla porta della società. Io che sono complottista non ci voglio credere. E spero di non sbagliare… In ogni caso, grazie di tutto, France’. Ci manchi tanto.

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