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Nasser contro Qutb, ecco il Medio Oriente di oggi

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Per tutti coloro interessati a una visione non manichea del conflitto tra secolarizzazione e islamismo nel mondo arabo, il libro di Fawaz Gerges The making of the Arab World. Nasser, Qutb and the Clash that shaped the Middle East è salutare come una boccata d’aria fresca. Docente di relazioni internazionali alla London School of Economics, l’autore libano-americano si è era già distinto in passato per avere scritto una storia dell’Isis ed essersi occupato, da vicino, di Al Qaeda e del relativo network terroristico.
Per capire i conflitti deflagrati in Medio Oriente dopo la decolonizzazione non si può fare a meno di analizzare uno dei paesi arabi più importanti sullo scacchiere mondiale, l’Egitto, e la storia del colpo di stato militare del 1952 da parte di Gamal Abdel Nasser e del suo Movimento dei Liberi Ufficiali, che deposero il Re Farouk e archiviarono la ventennale esperienza del costituzionalismo liberale – a sovranità limitata – del partito della Delegazione, il Wafd. Una storia che si intreccia sempre con quella della Fratellanza Musulmana – l’Ikhwan – il movimento di ispirazione religiosa con maggior seguito del mondo musulmano. Una storia che – ed è questo il valore aggiunto del libro di Gerges – non viene presentata come quella di una radicale opposizione di valori tra laicità e confessionalismo, ma nei termini ben più ampi della lotta per l’indipendenza dell’Egitto che ha unito i due movimenti, prima di separarli per cause più che altro relative alle ambizioni e alla sete di potere dei rispettivi leader che non idoelogiche.
Anche il laico Nasser, diventato capo dello stato dopo avere soppiantato il leader dei Liberi Ufficiali Mohammed Naguib, era membro della Fratellanza, e, in particolare della sua rete paramilitare clandestina, Al Nizham Al-Kass, e, idolo delle masse arabe, non nascose mai i suoi sentimenti religiosi. Allo stesso modo, l’Ikhwan, fondata da Hassan Al-Banna e poi condotta ad appoggiare il golpe dei Liberi Ufficiali da Hassan Hudayni, credette di poter usare i militari per raggiungere il suo scopo: creare un Egitto dominato dalla Shari’a.
Attraverso le interviste condotte con decine di personaggi legati a Nasser e alla Fratellanza, Gerges coglie le molteplici sfaccettature laiche e religiose del nazionalismo arabo ed egiziano, identificando nella lotta per il potere e nello sciagurato voltafaccia dell’Ikhwan a Nasser del 1954 – anno in cui Nasser diventò il padrone incontrastato dell’Egitto e in cui un membro della Fratellanza cercò di assassinarlo – il momento in cui i rapporti tra il “Leone del Mondo Arabo” e la Fratellanza si incrinarono.
Prese così avvio l’imprigionamento e la persecuzione dei seguaci di Sayyid Qutb – che in precedenza aveva avuto un ruolo nel Governo dei Liberi Ufficiali – il leader più amato e rispettato dai musulmani, impiccato nelle carceri egiziane nel 1966 dopo 10 anni di prigionia. Qutb teorizzò metodi apertamente violenti di lotta politica contro lo stato autoritario nasserista, e fondò anch’egli un network sotterraneo, Al Tanzim Al-Sirri, parallelo alla Fratellanza messa fuori legge dai militari.
Il soffocamento delle opposizioni – civili e politiche – portò alla proliferazione delle organizzazioni sotterranee clandestine e, di conseguenza, alla riconfigurazione dello stato egiziano su base securitaria, con un imponente apparato di servizi segreti – Mukhabarat – che crebbe sempre di più in peso e dimensioni. Da abile stratega Nasser inglobò nello stato anche la religione, sovvenzionando e sostenendo Al-Azhar, la principale università islamica del paese, ma scegliendone direttamente i vertici.
Diversi fattori portarono alla fine del nasserismo e al revival dell’islamismo, dopo la morte del Leone e la sua sostituzione con Anwar Al-Sadat, il “pio Presidente”. La sconfitta nella Guerra dei sei Giorni contro Israele distrusse l’esercito egiziano; la crisi economica nella seconda metà degli anni Sessanta portò l’Egitto a dipendere dal nemico storico Saudita e a un rapprochement con gli Stati Uniti che fu poi perfezionato da Sadat; il “capitalismo populista di stato” andò in crisi con effetti che andarono a colpire le classi medio-basse e rurali, roccaforte del nasserismo. L’Ikhwan, seppure divisa al suo interno sull’eredità qutbiana, sostituì le mancanze dello stato con una rete capillare di relazioni, welfare e potè contare sulla devozione dei fedeli al Profeta.
Il resto è storia recente, con l’omicidio – da parte della Jihad islamica egiziana – del “traditore” Sadat colpevole di avere siglato la pace con Israele a Camp David, l’ascesa al potere di Hosni Mubarak e il suo defenestramento nel 2011 con la rivoluzione di Piazza Tahrir, le prime libere elezioni della storia egiziana che portarono al successo dei Fratelli Musulmani. Il fallimento dell’esperienza di governo di Mohamed Morsi – un leader poco carismatico, inadatto a un ruolo così importante e manovrato dai vertici della Fratellanza quali il leader Mohamed Badie, il suo braccio destro El-Shater e Mahmoud Izzat, l’uomo che più di tutti tesse le trame del movimento – ha portato a un nuovo golpe militare nel 2013 e al governo di Abdel Fattah Al-Sisi.
In questo contesto fortemente instabile, dove le regole della lotta politica sono generalmente la soppressione del dissenso – e dei partiti – l’incarcerazione degli oppositori e l’inquadramento nello stato di tutte le istanze della società civile, rimane da chiedersi cosa avrebbe potuto essere dell’Egitto se la monarchia e i colonizzatori britannici avessero creduto maggiormente nella Costituzione del 1922 appoggiando pienamente gli indipendentisti liberali e democratici che credevano in un Egitto diverso da quello autoritario di Nasser e da quello fondato sull’estremismo islamico della Fratellanza.
La storia dell’Egitto, del suo affrancamento dall’Impero Ottomano e dall’occupazione britannica è in fondo la storia di tanti stati arabi, le cui masse hanno aderito dapprima al nazionalismo panarabo, e poi a quello locale del partito Ba’ath in Siria e in Iraq, e, a quello palestinese come simbolo della rivolta araba contro l’Occidente. Infine, al fondamentalismo islamico di movimenti diversi come la Fratellanza, Al Qaeda e l’Isis. La sensazione è che dopo l’“esportazione della democrazia” e il sostegno – più o meno esplicito – alle Primavere Arabe del 2011, all’Occidente manchi oggi una strategia per “ingaggiare” chi, seppure in modo minoritario, continua a combattere per i diritti e la democrazia in Medio Oriente.

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