Atlantico SportivoSpeciali

Quando il calcio in Italia era una cosa seria: se la Nazionale non vince è solo colpa nostra

Atlantico Sportivo / Speciali

Il calcio a casa nostra era una cosa seria. Era serio nella piazzetta sotto casa tanto quanto al Westfalenstadion in una notte di luglio del 2006, quando dei ragazzi degli anni ’70 ci fecero vivere una delle più intense emozioni sportive. E adesso? Adesso non ci sono più le piazzette e non riusciamo a fare un goal in due partite contro una nazionale scandinava, per giunta priva del suo giocatore di maggior talento (forse di sempre). E’ passato poco meno di un anno da quella notte, che sarebbe dovuta essere l’Armageddon del calcio italiano prima della rinascita, ma a giudicare dai vertici sportivi e dai risultati della nostra squadra nazionale, siamo ben lontani dal vedere le luci di nuovi trionfi.

Ma cos’è successo alla patria dei Totti, dei Del Piero, dei Vieri, dei Nesta? Possibile che i ragazzi nati dopo di loro siano talmente scarsi da costringerci a sperare in qualche oriundo scartato dalla propria patria natia? Cos’è cambiato fra gli anni ’70 e gli anni ’90? Come crescevano i ragazzini coetanei di Pirlo (classe ’79) e Vieri (classe ’73)?

I ragazzini italiani che cominciavano a tirare calci ad un pallone imparavano a giocare per strada e, a parte il luogo comune che recita “la strada insegna tanto”, si divertivano. Se perdevano, non correvano dai genitori a lagnarsi, ma pensavano a metterci più impegno la partita seguente. Se non gli passavano il pallone, se lo andavano a prendere. Se perdevano una partita, chiedevano subito la rivincita, non se la prendevano con l’arbitro. Nemmeno c’era l’arbitro e di sicuro, quando le mamme li chiamavano perché era pronta la cena, andavano via da quelle piazzette stanchi, sporchi, con le ginocchia sbucciate, ma contenti. E non vedevano l’ora di scendere di nuovo su quel campo di terra e cemento. Si scontravano con ragazzini più grandi, più furbi e più prepotenti, e giorno dopo giorno cercavano di migliorare, perché non volevano essere gli ultimi ad essere scelti quando si facevano le squadre. Poi, quando erano cresciuti abbastanza, imploravano i propri genitori di iscriverli ad una scuola calcio, non per diventare il nuovo Antognoni, ma perché volevano giocare a calcio e non più “a pallone”.

Ora si gioca nei campetti di erba sintetica, nelle scuole calcio i genitori li portano a 6 anni o anche prima, pensando di avere già l’erede di Totti bello e pronto che farà vivere la famiglia nella ricchezza. Magari fosse solo questa l’assurdità… ci si mette anche che, come a scuola con gli insegnanti, se il bambino non gioca è colpa esclusivamente dell’allenatore. Poi c’è la Federazione che, per far cominciare prima i bambini, altrimenti si appassionano ad altri sport, ha deciso negli ultimi anni di far giocare i più piccoli nei campi a 5 e a 7 (perché il campo a 11 è troppo grande e devono imparare a giocare “nello stretto”). Queste politiche andrebbero pure bene, se non fosse che poi li catapulti in un campo a 11 con le retrocessioni e, si sa, nessuno vuole retrocedere. Allora gli “allenatori” più scaltri mettono uno spilungone davanti ed è tutto un palla alta a scavalcare il centrocampo. Se invece l’allenatore prova a giocare da dietro, con scambi palla a terra, fa fatica a portare la squadra nella metà campo avversaria, perché è normale che un ragazzino di 12 anni sbagli un passaggio di 15 metri. Ma a queste condizioni, se lo sbaglia si prende goal e si perdono le partite, si retrocede e i ragazzini perdono l’autostima, si deprimono e ancora peggio perdono la voglia di giocare e si allontanano dal calcio, perché non si divertono più, o forse non si sono mai divertiti.

Nelle scuole calcio di oggi ci sono sempre meno ex-calciatori e sempre più diplomati Isef che insegnano ai ragazzini come si corre, come si salta, eccetera. Il che potrebbe anche andare bene se i bambini arrivassero dalla “scuola delle piazzette”, ma a calcio si gioca con il pallone. E il pallone lo si deve conoscere, si deve imparare prima di tutto a tenerlo fra i piedi, e magari andarci a dormire. Gli allenatori dovrebbero prima insegnare a correre tenendo la testa alta con il pallone fra i piedi, e solo dopo i preparatori dovrebbero pensare a come migliorare la corsa e l’atletica. Perché purtroppo ci sono tanti buoni istruttori Isef cui piace il calcio e pensano di poterlo insegnare, ma non hanno mai battuto un fallo laterale in vita loro. Ma se non ci si è sporcati la faccia di fango in una fredda mattina invernale, in un campo lontano da casa, difficilmente si può insegnare il calcio ad un bambino.

Inoltre, al giorno d’oggi i ragazzini possono scegliere molti altri sport oltre al calcio, e sono sempre meno quelli che lo vivono come uno sport da praticare e per il quale sacrificarsi, e sempre più quelli che lo usano come un hobby. Rispetto a trent’anni fa, i teenager di adesso hanno la Playstation, l’Xbox e tante alternative che li allontanano da quelle piazzette impolverate senza però insegnargli niente, perché con un joypad in mano non sono scelti da nessuno, sono loro che giocano con la classe di Ronaldo e di Messi, e pensano di essere i più forti di tutti solo perché un processore calcia un finto pallone al posto loro.

Tutto questo per dire che se la nostra nazionale non vince più, non è colpa dei troppi stranieri, o di terze parti, ma è solo colpa nostra. Se vogliamo rivivere le notti di Berlino o di Madrid, dovremmo ricominciare dalla basi, preoccuparci che i nostri figli si divertano, incoraggiarli e non giustificarli. Il futuro del nostro calcio è nei loro piedi e nelle mani di chi gestisce la Federazione. Se quelle mani non sono sapienti, cerchiamo almeno di far rendere al meglio i piedi dei nostri figli, lasciandoli divertire. E se vedono Ronaldo che fa “l’elastico”, non sproniamoli ad impararlo, perché “l’elastico” non serve a niente se poi non sanno stoppare il pallone.

Iscrivi al canale whatsapp di nicolaporro.it
la grande bugia verde