Nella puntata di domenica scorsa di Imma Tataranni, sostituto procuratore – una serie televisiva tratta dai romanzi della materana Mariolina Venezia – Rione Serra, la Montalbano lucana, interpretata da Vanessa Scalera (in foto), indaga sull’omicidio di una sua compagna di liceo, Stella Pisicchio. Nel corso dell’indagine viene fuori che un signore del luogo, rimasto al verde e desideroso di vendere al Comune per farne un museo storico il palazzo avito – ricco di memorie del suo antenato che aveva combattuto a fianco di Garibaldi – viene ricattato dalla vittima che, avendo scoperto che il prode garibaldino si era reso colpevole del reato di strage ai danni dei contadini locali, chiede una grossa cifra per il suo silenzio – la verità storica ovviamente avrebbe mandato all’aria l’operazione.
“Il fascino del romanzo – si legge – sta soprattutto nella ricostruzione storico-ambientale che Mariolina Venezia disegna con precisione da attenta ricercatrice. Il Risorgimento mancato, il cosiddetto Brigantaggio, la questione meridionale oggi tornata di così scottante attualità, il vero ruolo dell’esercito sabaudo non solo liberatore, ma purtroppo anche feroce assassino. Il racconto della storia scritta dai vincitori e imparata a scuola, si mescola con pagine di storia locale poco note, che vengono alla luce dopo essere state celate per decenni nei palazzi abbandonati, nei bauli dimenticati. Fotografie antiche che testimoniano stragi efferate si mescolano con piante catastali di interi borghi rasi al suolo, senza che rimanesse “altro che pietra su pietra”, dai vincitori venuti a liberare il sud dagli odiati Borboni”.
Nulla di nuovo se si pensa che Pino Aprile, nella trasmissione televisiva Made in Sud (RaiDue) ha simpaticamente esposto le sue tesi neoborboniche come se fossero verità scontate. È inutile ricordare alla Venezia e ad Aprile che la ‘conquista del Sud’ non è stata opera di brigantaggio piemontese e che la storia non partigiana del Mezzogiorno dopo l’Unità è stata scritta, soprattutto, da grandi storici meridionali (e meridionalisti), da Benedetto Croce a Gaetano Salvemini, da Rosario Romeo a Giuseppe Galasso per limitarci a questi. Fatica sprecata giacché ci sarà sempre chi parlerà del lager di Fenestrelle e della strage di Ponte Landolfo, guardandosi bene dal leggere cosa ne hanno scritto in proposito studiosi come Alessandro Barbero e Giancristiano Desiderio. Il problema è un altro e riguarda il significato che può rivestire, nel nostro tempo, questa letteratura revisionistica antirisorgimentale – un bel battage pubblicitario ai coraggiosi che non esitavano ‘a parlar male di Garibaldi’ lo diede anni fa Giuliano Ferrara aprendo il Foglio a intrepidi demolitori dei miti patri, come Angela Pellicciari – sottilmente antimoderna e baciapile.
A ben riflettere, ci troviamo dinanzi al nadir dell’etica pubblica e dell’identità nazionale. Se ne hanno esempi al Nord come al Sud. A Genova, nella centralissima Piazza Corvetto, una lapide ricorda che nell’aprile del 1849, “le truppe del Re di Sardegna Vittorio Emanuele II al comando del generale Alfonso La Marmora sottoposero l’inerme popolazione genovese a saccheggi bombardamenti e crudeli violenze provocando la morte di molti pacifici cittadini aggiungendo così alla forzata annessione (sic!) della Repubblica di Genova al Regno di Sardegna del 1814 un ulteriore motivo di biasimo. Affinché ciò che è stato troppo a lungo rimosso non venga più dimenticata il Comune di Genova pose”. A Napoli, nell’ancor più centrale Piazza Trento e Trieste un’edicola espone tutte le pubblicazioni dei nostalgici dei Borboni e neppure un testo di divulgazione storica di diverso orientamento ideologico.
Cosa dire? La critica ai modi con i quali si giunse all’unità d’Italia non sono un fatto di oggi, basti pensare ad Antonio Gramsci, a Piero Gobetti e prima ancora a Carlo Cattaneo, sul versante federalista, e ad Alfredo Oriani, sul versante protonazionalista, ma c’è una differenza fondamentale tra il revisionismo del passato e quello odierno. Il primo s’ispirava a idealità alte, a programmi ambiziosi (ingenui o realistici che fossero), alla volontà di ‘rifare il Risorgimento’ su altre basi e, soprattutto con ampia partecipazione di popolo. Il secondo non ha nessuna nuova e credibile ideologia da far valere, nessun simbolo storico prestigioso a cui richiamarsi, nessuna figura esemplare da proporre alle nuove generazioni giacché sarebbe davvero strano rimpiangere il passato di quasi tutti gli stati italiani preunitari ovvero credere all’esemplarità della fatiscente Repubblica di Genova (non molto diversa da quella di Venezia, descritta dal genio di Ippolito Nievo in quel capolavoro assoluto che sono “Le confessioni di un ottuagenario”) o del modello borbonico delle Due Sicilie (Napoli fu grande, nel Settecento, quando a segnare la sua vita politica e culturale furono gli illuministi protetti da Carlo III, ovvero un ceto intellettuale lontano anni luce dai nostalgici di Ferdinando II e di Carolina).
E allora qual è il significato di questo antisorgimentismo che sembra essere quasi diventato senso comune per una parte rilevante dei nostri connazionali? A definirlo, è la frustrazione profonda seguita alla crisi oggettiva dello stato nazionale, il venir meno di un’appartenenza che se non si rompe è solo per ragioni pratiche, economiche, per forza d’inerzia istituzionale, per contesti internazionali. Si sta insieme senza voglia e senza convinzione: non ci si commuove più sentendo l’Inno di Mameli, non ci si sente più italiani, da Trento a Palermo, e allora si riscopre la ‘comunità’, la ‘tana’ felice sconvolta da emmerdeurs come Cavour, Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele II. La riscoperta della ‘comunità’ nell’Ottocento è legata – un paradosso solo apparente – all’unificazione della penisola: il ‘verismo’ fu una sorta di censimento democratico volto a far conoscere gli Italiani che si erano ritrovati insieme, dopo secoli di divisioni e di dominio straniero, e che ora volevano essere riconosciuti nella loro diversità per diventare membri, di pari dignità, della grande famiglia. Quella verista fu una grande stagione letteraria, fu il risveglio di un popolo blindato fino allora nei propri dialetti e nella propria cultura. Oggi il ritorno alla vegia Zena o a Napule comm’era è qualcosa che ispira pena e tristezza. Al posto di Giovanni Verga abbiamo Mariolina Venezia! La sua Imma Tataranni s’irrita nel sentire la parola ‘brigante’ giacché i briganti non sono mai esistiti, (neppure la mafia, del resto), essendo un’invenzione dei predoni piemontesi: e la tv pubblica mette il timbro a un ‘racconto’ ormai canonico.
Forse con lo stato nazionale si sta spegnendo non solo il senso della storia ma anche l’intelligenza e la creatività di un popolo che da tempo non produce più né arte né letteratura, né scienza, né filosofia. Forse non è un caso.