Se il classico marziano di Flaiano arrivasse in Italia in questi giorni di rievocazioni della caduta del Muro di Berlino, penserebbe che la barriera fu costruita da un “regime illiberale” composto da “nazionalisti” e che ad abbatterlo furono i “liberali”, cioè i partiti di sinistra. Straordinari questi Marine Le Pen, Matteo Salvini e Giorgia Meloni che rispettivamente diciannovenne, sedicenne e dodicenne, asserragliati nel quartiere di Pankow di Berlino, sede delle autorità e dei ministeri dell’Est, cercarono inutilmente di fermare la rivolta. Più straordinaria Marion Maréchal, che addirittura stava ancora nel ventre materno (sarebbe nata solo nel dicembre di quell’anno). Mentre le fotografie di un venticinquenne Viktor Orban nelle piazze di Budapest nel settembre forse ritraevano un difensore del “regime illiberale”. A metà tra falsificazione staliniana e ricostruzione storica orwelliana, è però quello che abbiamo letto sui giornali mainstream e che abbiamo visto e sentito in alcune reti pubbliche (e non solo pubbliche), mentre la parola C (anzi, K) non è uscita neppure dalla bocca del presidente della Repubblica.
Perché tanta paura nel dire che il nome ufficiale del muro era Antifaschistischer Schutzwall, cioè letteralmente “barriera di protezione antifascista”, che il regime e il partito della DDR si chiamavano socialisti, che era un modo edulcorato per nascondere la parola K (anche allora), che le piazze erano piene di monumenti dedicati ai comunisti russi e non, di vie Lenin, e che a scuola erano obbligatori il russo e il marxismo-leninismo?
Comprendiamo l’imbarazzo e la vergogna dei vari Veltroni, Bersani, Fassino, Zingaretti, Cuperlo, Gualtieri, Fiano, allora tutti deputati o dirigenti del Pci o della Fgci – dove la C sta per comunista. Un partito che ancora nel marzo del 1989 aveva tenuto un convegno nazionale, a Roma, in cui tra invocazioni all’Amazzonia e peana a Gorbaciov, segretario del Pcus (c: sempre sta per comunista), aveva lanciato la formula del “comunismo del XXI secolo”? Mentre di fronte alla strage di Tienanmen del giugno, il Pci aveva chiarito che il comunismo era vivo e vegeto, minacciando di espulsione chi, come Giorgio Napolitano, aveva molto timidamente proposto il cambio del nome.
Purtroppo, o per fortuna, lo stesso tenore di interventi, sia pure non a un livello di menzogna così spinta, li abbiamo letti negli editoriali dei fogli “liberali” progressisti, liberal e globalisti, dal Financial Times a Le Monde, dal Guardian al New York Times. In cui davvero, se uno non conoscesse la storia, sembrerebbe che il Muro fu edificato da regimi nazionalisti. Un pericolo, quello nazionalista, che sarebbe riapparso all’orizzonte negli ultimi anni e che minaccerebbe le “grandi conquiste” del 1989. Da qui l’idea, su cui sta lavorando da mesi la Open Society di Soros, di drammatizzare un nuovo divario ovest-est. Ecco come mai i cattivi Putin, Orban, Kaczyński, Babis (che però sta con Macron), abbiano potuto trionfare: retti da regimi nazionalisti prima del 1989, come oggi. Solo che il nazionalismo dell’est sarebbe entrato anche nella “culla” del “liberalismo”: l’America, il Regno Unito, l’Europa dell’ovest. È caricaturale, certo, ma ogni propaganda lo è, alla fine: basta leggere il volume recente, “L’impero diviso”, scritto da due autori membri della Open Society, Federico Fubini e Ivan Krastev, per avere un esempio concreto di questa ideologia. Last but not least, a confondere le acque si è messa pure la cancelliera Merkel, cresciuta, formatasi e, secondo qualcuno, anche di più, nella DDR, visto che è nata nel 1954. Alle commemorazioni ha invitato a non smettere la battaglia contro…l’“antisemitismo”, come se il regime comunista della DDR in fondo non fosse che nazionalista. Ora, è vero che i comunisti non amavano molto gli ebrei e soprattutto Israele, ma da “antifascisti” (il termine campeggiava ovunque nelle piazze e nelle vie di Berlino est) lo rigettavano come peste. E in fondo il discorso di Angela di sabato avrebbero potuto essere letto anche da Eric Honecker.
La realtà è che i globalisti sono in default mentale perché, trent’anni dopo, il sogno del 1989 si è davvero infranto. Era l’utopia della fine della storia che doveva condurre alla estensione universale e mondiale del mercato e della democrazia liberale, al superamento delle nazioni e magari pure delle frontiere. Ma questo sogno globalista, ammesso non fosse un incubo, è fallito perché non poteva che fallire, come ogni progetto di stampo illuministico e imperialistico, dal 1789 in avanti: e non poteva che crollare perché rifiutava la natura umana, la tradizione, le radici, la storia. I popoli che si ribellarono nel 1989 lo fecero certo in nome della libertà individuale, e dei consumi, come giusto e legittimo: ma lo fecero anche perché volevano riprendere il controllo della nazione, che l’imperialismo moscovita aveva strappato loro. Gli slogan nazionalistici tuonavano nelle piazze di Berlino, Budapest, Varsavia, Praga, Bucarest nell’autunno del 1989, come erano risuonati nelle stesse piazze nel 1956, nel 1968, e in Polonia nel 1980. Il take back control dei Brexiteers contro Bruxelles, loro lo andarono urlando contro Mosca, ma molto tempo prima. E, usciti da una dittatura rossa, si capisce come mai quei Paesi (ma non solo quelli) non vogliano oggi finire schiacciati da quello che Jean Monnet, uno dei suoi fondatori, definiva il despotisme éclairé, il dispotismo illuminato, della Unione europea. In attesa che cada il Muro di Bruxelles.