A costo di rendermi impopolare, dico che non possiamo non elogiare il Cavaliere. Sì, è vero, anche io ero a San Giovanni e il suo discorso è stato fischiato da qualcuno. Ma solo verso la fine, e perché forse un po’ troppo lungo e dal tono non proprio squillante. All’inizio invece il suo intervento ha strappato non pochi applausi. Ed è vero che l’ultimo Berlusconi, quello da Monti in poi, ha deluso parecchio. Ma, perdinci, come direbbe lui, ricordiamo che cosa è stato fatto a quest’uomo: vittima di un coup nel 2011, buttato fuori dal Senato dalla stessa alleanza che oggi tiene in piedi il Conte bis, incarcerato, di fatto (ai servizi, stessa cosa). Eppure eccolo ancora lì ad arringare una folla di duecentomila persone, cosa che molti suoi critici non avranno mai occasione, e men che meno a ottant’anni.
Perché dobbiamo elogiare il Cav? Per almeno due ragioni, una del passato e una del presente. Quella del passato è fin troppo evidente e si potrebbe riassumere nello slogan “meno male che Silvio c’è stato”. Facciamo un po’ di storia controfattuale e immaginiamoci se Berlusconi non fosse esistito. La macchina da guerra occhettiana, composta da eurocrati e burocrati, da magistrati “democratici”, da imprenditori da crony capitalism, avrebbe ammazzato il Paese di tasse e di espropri più di quanto comunque non fece e ci avrebbe resi un’appendice di Berlino (all’epoca erano meno filo francesi) più di quanto non ci abbia trasformato. Senza Silvio l’Msi sarebbe rimasto tale e quindi destinato a restare nel ghetto. La Lega sarebbe stata confinata al Nord, sarebbe cresciuta e forse si sarebbe giunti a una situazione alla catalana. Inoltre quel poco di novità introdotta nella cultura politica della sinistra si deve unicamente al Cavaliere: nel senso che hanno reagito per paura. Insomma siamo tutti, a cominciare da Matteo Salvini e da Giorgia Meloni, figli politici di Berlusconi. E i padri vanno rispettati.
Ma il contributo del Cavaliere è ancora importante oggi. L’adesione alla manifestazione di Roma e il suo discorso sono stati un atto di coraggio e di lungimiranza, niente affatto scontati, considerando che all’interno di Forza Italia e anche da ambienti storicamente molto vicini a Berlusconi, era forte ed è ancora presente la tentazione dei “responsabili per Giuseppi“. E questo sarebbe un tradimento totale, un rinnegamento delle ragioni che portarono nel 1994 alla discesa in campo, come ha giustamente ricordato ieri in piazza San Giovanni il Cavaliere. Lasciamo perdere che in pochissimi elettori lo seguirebbero: dal punto di vista storico e simbolico sarebbe (stato) un uppercut.
Anche se numericamente poco rilevante (anche se determinante, come si vedrà alle regionali) il contributo di Forza Italia e di Berlusconi resta importante: non tanto per mantenere accesa la fiaccola del liberalismo (termine che non vuol dire più niente) o solo per l’antistatalismo (di tanto in tanto sorgono nostalgie statolatriche nel blocco sovranista) quanto per assicurare che la marea elettorale sovranista non sia costituita da sfascia carrozze. Non si tratta di moderatismo e di centrismo, termini anch’essi privi di significato ormai, né di solo rapporto con il Ppe. Si tratta di costruire un solido sovranismo di governo. Perché, come ha ricordato Berlusconi in una recente intervista ad Alessandro Sallusti per Il Giornale “in un certo senso, io sono stato il primo sovranista”. Ed è vero.