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Chiamiamolo per quello che è: un virus cinese

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È bene sottrarsi all’ipocrita galateo lessicale che non ammette di attribuire al Covid una denominazione di origine (non controllata) e designarlo per quello che è: un virus cinese. Non si può disconoscere la paternità geografica della pestilenza che ha avuto una diffusione globale. Il Coronavirus non è figlio di nessuno ma ha una provenienza incontrovertibile e l’unico dato di certezza va ribadito senza camuffamento terminologico. Il nostro sistema sanitario ha dimostrato di essere vulnerabile all’insorgenza epidemica che con virulenza ha scatenato effetti nocivi sulla collettività.

Eravamo impreparati ad organizzare la resistenza efficace alla potenza virale che è deflagrata sulla nostra società, i nostri anticorpi non hanno potuto domare l’agente patogeno con l’aggravante di un governo che ha amplificato le carenze logistiche nel contenimento epidemico. Adesso occorre puntellare la diga oppositiva a un altro virus, a sua volta erede del patrimonio genetico del Dragone comunista, che può contaminare il nostro ordinamento democratico con la decomposizione dei presidi di libertà individuale. Sarebbe paradossale tentare di sconfiggere il virus cinese importando, dalla causa della sua diffusione, sistemi di soffocamento delle libertà personali. Oltre al danno della pandemia, con gli effetti perniciosi patiti dalla popolazione, non possiamo autoinfliggersi la beffa della terapia, made in China, limitativa delle nostre garanzie costituzionali.

La pressione totalizzante che il Covid sta esercitando sulla dimensione della nostra quotidianità, come fossimo ipnotizzati da una monotematicità ossessiva, rischia di renderci indulgenti alle intrusioni pervasive nella sfera della cittadinanza. Il cittadino con il collare elettronico, per monitorarne e sorvegliarne ogni spostamento, subisce la violazione della propria privacy, che rappresenta il nucleo della personalità individuale la cui menomazione diventa incompatibile con il pieno godimento dei diritti di libertà.

La salute è un bene fondamentale connesso all’individuo e alla comunità alla quale si appartiene, pertanto le ragionevoli e temporanee limitazioni finalizzate all’azione profilattica sono accolte come interventi di tutela dell’interesse generale. Tuttavia, la dilatazione temporale delle misure restrittive, in assenza di una prospettiva chiara sul restauro delle libertà avvilite, converte l’iniziale accettazione in avversione. Se aggiungiamo la proposta partorita da una delle tante task force istituite dal governo che prevede l’attivazione di un’applicazione, denominata “Immuni”, per il tracciamento, che sarebbe stata più utile nella fase di esordio del contagio, deduciamo un’ulteriore restrizione dei nostri spazi di libertà. L’app “Immuni” non sarebbe obbligatoria ma chi si sottraesse alla sua mappatura subirebbe inibizioni nella mobilità. Dunque, l’installazione del software sarebbe apparentemente non obbligatoria, essendo vincolante il suo uso per esercitare la piena libertà di movimento. Chi osa contestare tali provvedimenti rischia di essere additato come un eretico o un terrorista dinamitardo al servizio della destabilizzazione.

L’Italia è stato il primo Paese occidentale ad essere stato investito dall’emergenza pandemica e la risposta sgangherata del governo venne elevata corrivamente a modello. In mancanza di alternative è ovvio che l’unica esperienza di gestione dell’emergenza si arroghi il merito del prototipo di successo, ma il presunto modello italiano è stato immediatamente degradato come riferimento dalla più efficace reazione tedesca, francese, inglese e dei paesi nordici. Questi si sono dimostrati più performanti in termini di vittime, di gestione del lockdown e nella programmazione della riapertura.

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