Biblioteca liberale

Bianco (Bret Easton Ellis)

Bianco

Autore: Bret Easton Ellis
Anno di pubblicazione: 2019

È il saggio, non so se definirlo davvero così, più bello che ho letto negli ultimi sei mesi. Si chiama Bianco, l’ho letto in inglese e in anticipo mi scuso per alcune frasi che non vi tradurrò dall’inglese, ed è stato scritto da Ellis, quello di American Pshyco, per intendersi.

Gay dichiarato, nato in California, cresciuto professionalmente a New York, tipicamente liberal, di sinistra, ha scritto la più potente critica al politicamente corretto che io abbia mai letto negli ultimi anni. In un mix di ricordi personali, di film indipendenti che nessuno di noi ha mai visto, con riferimenti tutti americani, Bianco ci racconta l’incredibile ascesa di una certa superiorità morale che la cultura liberal si è autoassegnata. E noi che credevamo all’egemonia gramsciana: tutte balle. E tutto nasce con le primarie che hanno visto l’affermazione di Trump, e poi la sua vittoria alle presidenziali. Un evento che il mainstream culturale americano non poteva e non può ancora accettare. “ecco come si può definire la nostra cultura – scrive Ellis -: la crescente incapacità di accettare punti di vista difformi dal “moralmente superiore” status quo”.

Scrive, e mi viene da pensare al presuntuoso e isterico manifesto delle sardine con cerchietto, che testimonia “l’idea che se non ti puoi identificare con qualcuno o con qualcosa, allora non vale la pena confrontarsi con esso”. Tutti hanno il diritto di parola, scrivono i pesciolini in branco non rendendosi conto dello status quo sovietico in cui ci proiettano, ma noi abbiamo il diritto del non ascolto. Come gli amici di Ellis pretendono di non ascoltare i milioni di americani che hanno votato Trump. Ellis ci racconta di quel giorno che fu invitato da una delle famose leghe antidiffamazione gayesca (GLAAD) e che per colpa di un suo tweet di mesi prima, ritirò l’invito e pretese le scuse. È un “corporate fascism” dice l’autore di American. Scrive ancora: “questi della GLAAD rafforzano l’idea che noi gay siamo tutti dei bambini ipersensibili che abbiamo bisogno di essere cullati e protetti, per carità mica dagli attacchi feroci in Russia, o nel mondo musulmano, Cina o India, per citare alcuni paesi, non da loro, ma insomma all’interno dei nostri ‘domestic cultural sentiment”.

Ellis dissacra la correttezza assurda per cui non si possono tollerare barzellette sui gay, non si può dire che le registe donne siano una minoranza o che uno non vale uno, nel giudicare il pasto in un ristorante. Siamo in una cultura dei like, dell’inclusività, della correttezza del linguaggio, che è diventata una gabbia. Abbiamo ucciso quell’intuizione del Boss, di Springsteen, per cui ciò che vale è l’arte non l’artista. Siamo vittime dei “social justice warrors”, dei guerrieri della giustizia sociale, che si sentono investiti da un’incessante opera di resistenza (vi dice qualcosa l’ossessivo utilizzo di Bella Ciao da queste parti?) non si sa bene a che cosa.

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