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Il sangue dei vinti ignorato dal 25 aprile

Finché la sinistra userà i miti della Resistenza come clava politica non potrà mai esserci vera pacificazione

Schlein partigiani 25 aprile (1)

Quest’anno ricorreva l’ottantesimo anniversario di quel particolare evento storico che viene da sempre definito come la liberazione dal nazi-fascismo. Un evento assai complesso e pieno di molte luci e altrettante ombre che ancora oggi divide il Paese sul piano della ricostruzione storica. Una ricostruzione che, così come è sempre stato sin dagli albori delle società umane organizzate, porta tanta acqua al mulino dei vincitori, ad essere buoni.

Una ricostruzione che in questo caso non sembra lasciare alcuno spiraglio agli sconfitti, dal momento che una certa vulgata politicamente corretta, da sempre monopolizzata dalla cultura politica del vecchio Partito comunista, non ha mai avuto mezze misure nel definire la qualità etica e morale degli italiani che dopo il fatidico 8 settembre del ‘43 si trovarono, vuoi per collocazione geografica, vuoi per convenienza, vuoi per spirito di sopravvivenza e vuoi per intimo convincimento, in uno dei due schieramenti che diedero vita ad una spietata guerra civile: da una parte c’erano i “cattivi”, ovvero gli appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana, e dall’altra i campioni delle libertà civili e democratiche incarnati dai gloriosi appartenenti alle formazioni partigiane.

Quindi, in questa agiografica e semplificata versione di una lotta tra il bene e il male assoluto non c’è mai stato posto – almeno dal punto di vista di chi tale visione ha sempre sostenuto a spada tratta – per le ragioni di chi convintamente ha combattuto, o semplicemente offerto una collaborazione dalla scrivania di un ufficio della scalcinata Repubblica guidata da un Mussolini politicamente già morto, sotto le insegne della RSI.

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Tanto è vero che ancora oggi, malgrado molta acqua sia passata sotto i ponti, soprattutto per gli attuali sostenitori di una lotta di liberazione senza macchie, i quali da sempre esagerano oltre ogni misura i meriti bellici delle organizzazioni partigiane, non è ammesso alcun dibattito critico su ciò che è realmente avvenuto in Italia dopo il 25 aprile del 1945.

Eppure c’è un compianto giornalista proveniente da quella medesima area politica, ed i cui i principi e scopi, finché è restato in vita, non ha mai rinnegato, che all’inizio del terzo millennio ha avuto il grande coraggio – ricevendo una vera e propria scomunica dalla parrocchia di fede comunista – di squarciare il velo di ipocrisia che fino a quel momento copriva gli orrendi crimini, probabilmente equiparabili a quelli commessi dall’altra parte della barricata, perpetrati in tutta la Penisola centro-settentrionale da un buon numero dei citati campioni delle libertà civili e democratiche.

Mi riferisco a Giampaolo Pansa e al suo inquietante successo letterario dal titolo emblematico: “Il sangue dei vinti”.

Uno libro che mi è capitato tra le mani per caso proprio in questi giorni e che, leggendolo tutto d’un fiato, mi ha particolarmente colpito per l’estrema e diffusa crudeltà degli episodi raccontati (episodi tutti ben documentati, che secondo l’autore rappresenterebbero solo una parte delle efferatezze compiute da alcune formazioni partigiane).

In particolare, Pansa evidenziando l’elevato numero di civili (non riconducibili al fascismo) uccisi in quelle zone d’Italia in cui l’egemonia comunista era notevole, cioè nel “triangolo della morte” e più in generale in gran parte dell’Emilia-Romagna, sostiene nel libro la tesi che in quelle terre al termine della guerra civile di liberazione contro i nazi-fascisti ne iniziò una seconda, una guerra civile sotterranea e clandestina effettuata da settori più o meno deviati del PCI contro quelli che erano ritenuti dei nemici di classe (proprietari terrieri, sacerdoti, esponenti di partiti politici anticomunisti) in preparazione di un’eventuale.

Di questa “seconda” guerra civile e delle uccisioni compiute a guerra ormai finita secondo Pansa fu in parte responsabile anche Palmiro Togliatti, l’allora segretario del PCI che fino alla fine del 1946 nulla fece per porre freno ai numerosi omicidi, ma che anzi avrebbe permesso la fuga in quei paesi dell’Est Europa sotto influenza sovietica di alcuni fra i responsabili di quei crimini.

Ebbene, per quanto obiettivi siano gli errori e i crimini compiuti dal fascismo, che prima di entrare in una guerra sconsiderata godeva di uno schiacciante consenso nel Paese, non possiamo accettare che sugli errori e i crimini commessi da alcuni sedicenti liberatori (sedicenti in quanto senza il grande dispiegamento di uomini e mezzi degli Alleati costoro sarebbero rimasti in eterno nascosti sulle montagne a cantare “Bella ciao” ) della lotta partigiana, dopo ben ottant’anni, non si riesca a sviluppare un accettabile dibattito critico. Un dibattito critico che avrebbe principalmente lo scopo di riconciliare in una visione storicamente accettabile chi si trova ancora idealmente diviso da una barricata ideologica.

D’altro canto, finché la sinistra italiana, erede di quello che è stato il più grande partito comunista dell’Occidente libero, continuerà ad utilizzare il miti resistenziali e l’antifascismo come una clava politica, sarà ben difficile superare un impasse dialettico che dura, senza soluzione di continuità, da quel lontano 25 aprile del 1945.

Claudio Romiti, 26 aprile 2025

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