Nonostante la dottrina comunista versi in uno stato di evidente putrefazione, alcuni suoi epigoni residuali continuano a leggere la storia con lenti deformate dall’ideologia, imponendo una narrazione della Liberazione come conquista esclusiva dei partigiani. Ma quale autentica libertà potevano rappresentare coloro che erano subordinati al liberticida regime sovietico?
Sul 25 Aprile volteggiano predatori retorici: sono gli hooligans dell’antifascismo, impegnati in una lotta simbolica contro un nemico ormai estinto. Pur di suffragare il proprio autoritratto democratico, si appropriano della genesi della Repubblica italiana e oscurano il decisivo tributo di sangue degli alleati anglo-americani. Su questa celebrazione si è instaurato un monopolio ideologico che ne impedisce la funzione pacificatrice tra gli eredi — e i posteri — del fascismo e dell’antifascismo.
Il 25 Aprile è diventato una data divisiva, non solo per il racconto omissivo che l’accompagna, ma per la pretesa della sinistra di esercitare su di essa una sorta di prelazione simbolica, rivendicando un’egemonia morale e storica nel tirocinio democratico. Così, la Liberazione si trasforma in un balsamo etico convenzionalista, difficile da riconoscere come fondamento di una memoria nazionale condivisa, soprattutto se si considera che il suo principale beneficiario simbolico — il Partito Comunista — avallò le violenze annessionistiche titine sulla Venezia Giulia e su Trieste. Quale sentimento patriottico può esprimere una forza politica che fu protagonista di epurazioni sommarie, asservita ideologicamente allo stalinismo e alla sistematica negazione della libertà?
Questo non significa minimizzare il valore della conquista democratica, che trova le sue radici nell’intervento anglo-americano e nell’adesione dell’Italia al Patto Atlantico. Ma l’appropriazione indebita del 25 Aprile da parte di chi fu storicamente subalterno a Mosca svela un abuso del monopolio celebrativo. L’ANPI — ancora oggi animata da pulsioni negazioniste sulle Foibe e incline a minimizzare i crimini commessi dai partigiani comunisti a guerra conclusa — ha goduto di uno status sacrale, ingiustificato rispetto al suo effettivo contributo alla verità storica. La sinistra dovrebbe far tesoro della storia, senza parodiarla e senza tentare di imporre una visione paternalistica della persona, da educare a introiettare una lettura propagandistica degli eventi. Un’impostazione che non solo mistifica la complessità del passato, ma attribuisce alle forze politiche alternative un ritratto caricaturale e antidemocratico, che nega la possibilità di un confronto sereno e costruttivo.
Questa tendenza si è ripresentata anche in occasione del lutto nazionale decretato per la morte del Pontefice, quando dalla sinistra sono emerse obiezioni che paventavano un’attenuazione delle celebrazioni antifasciste. Si è così giunti a tirare per la tunica, post mortem, il successore di Pietro, pur di riaffermare un primato simbolico. Tutto ciò si innesta in un clima di crescente semplificazione della politica, dove chiunque si collochi al di fuori della sinistra viene automaticamente stigmatizzato come reincarnazione di una stagione antidemocratica ormai archiviata dalla storia. Il riferimento al fascismo — reiterato quasi compulsivamente — appare come una coazione a ripetere che rinnega la possibilità di un’analisi politica equilibrata. Etichette e accuse si sostituiscono al dibattito, in un teatrino satirico che riproduce uno schema logoro, utile solo a mobilitare le schiere della militanza ideologica.
Le polemiche che si rinnovano ogni anno testimoniano una vocazione necrofila che alberga in certi ambienti: un perpetuo agitare i fantasmi del passato, una resistenza permanente contro un nemico immaginario. È l’espressione della difficoltà a confrontarsi con la realtà del presente politico e sociale, prigionieri di schemi mentali che evocano un tempo ormai trascorso. In un’epoca che richiede visione, pragmatismo e responsabilità, l’evocazione costante degli spettri del passato rischia di oscurare il dialogo democratico e di impedire il riconoscimento del valore delle scelte legittimate dal voto popolare. La sinistra continua ad essere asservita a visioni ideologiche obsolete, incapace di emanciparsi da una retorica antifascista che, anziché favorire il confronto democratico, lo soffoca in una liturgia ossificata e autoreferenziale.
Liberare il dibattito pubblico da queste pulsioni anacronistiche è l’unica via per costruire un dialogo politico maturo, rispettoso delle differenze e capace di confrontarsi senza l’ossessione di dover sempre evocare fantasmi ideologici che non trovano alcuna corrispondenza nel gesto politico del governo in carica.
Andrea Amata, 25 aprile 2025
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