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La cattiva lezione giapponese sul salario minimo

Anche nel Sol Levante tiene banco la proposta dei Cinque Stelle

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Uno pensa di andare lontano anni luce dall’Italia e trovare un dibattito economico un po’ diverso. E poi ti trovi a Tokyo, oggi la zuppa avrà un sapore asiatico, e vedi che tutte le prime pagine dei giornali locali parlano anche qua di salario minimo.

Come sapete, a chi scrive questa zuppa, l’idea di una paga minima fissata per legge, sembra come il decreto che ha battuto la povertà con un tratto di penna, e cioè un’illusione. Dove posizionare l’asticella? Se troppo bassa serve a niente, anzi autorizza a pagare poco. Se troppo alta, si genera un disastro per le imprese. In ogni caso, lascia poco spazio agli accordi tra parti, in cui la componente economica è fondamentale.

Cosa succede in Giappone? Semplice. Il salario minimo ce l’hanno già. E i politici, per il secondo anno consecutivo, lo vogliono alzare. Pensateci bene: se venisse introdotto, quale politico non chiederebbe ad ogni elezione il suo incremento anche dalle nostre parti? Esiste in Giappone un comitato per il salario minimo che fa le richieste al ministro del Lavoro. Ma, attenzione, il Paese è diviso in 47 prefetture e ognuna fa le sue proposte. In Giappone c’è un salario minimo, ma anche un federalismo spinto. Chissà se chi più lo vuole in Italia, e cioè i Cinque stelle, apprezza anche questa autonomia salariale su base provinciale. Nel Paese del Sol levante succede che la paga oraria minima a Tokyo, una città costosissima, è di poco più di 1.000 yen l’ora (circa 8 euro), mentre a Kagoshima c’è la più bassa a 787 yen. Si parla di una differenza del 20% tra paghe orarie nello stesso Paese, ma in zone diverse. La media delle province è 874 yen. Insomma, in Giappone c’è una bella differenza di stipendi tra città e campagna, come qualcuno potrebbe proporre tra Nord e Sud in Italia. Secondo voi, il governo, che dice di apprezzare il modello economico giapponese in perenne deficit e con debito stellare, potrebbe considerare la reintroduzione delle gabbie salariali?

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La notizia per il momento riguarda solo i ricconi, ma con quello che sta succedendo con i tassi di interesse in tutto il mondo, non è detto che arrivi anche da noi. In buona sostanza, e senza aver letto le tesi sulle banche di De Soto, queste ultime si faranno pagare i depositi bancari. Spieghiamoci meglio. In giro per il mondo i tassi di interesse a breve termine sono negativi. Ciò comporta che alcune banche chiederanno di essere pagate per tenere in cassaforte (elettronica) i vostri quattrini. Poi si faranno pagare, come è normale, i servizi che vi forniscono: dalle carte di credito ai conti titoli. Ma qui stiamo parlando di una cosa diversa e cioè che le banche chiederanno una sommetta per i vostri 10 mila euro lasciati a poltrire sul conto corrente.

Per ora in Europa è partita Ubs a richiedere un pagamento ai propri correntisti più ricchi e cioè coloro che tengono sul conto più di 2 milioni di euro. Molte banche già lo fanno per i conti aziendali, ma il passo per arrivare alla clientela normale è breve: tanto che Ubs è scattata. Secondo il Financial Times, la banca svizzera da novembre chiederà ai suoi ricchi clienti lo 0,75%, ogni anno, sull’ammontare depositato. Gli istituti dalle nostre parti ritengono pertanto che la politica di tassi sotto zero non è destinata a finire presto.

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