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Le colpe della Germania

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Continuiamo con la speciale zuppa di Porro straniera. Grazie ad un nostro amico analista che vuole mantenere l’anonimato, che parla le lingue, legge molti giornali stranieri e soprattutto li capisce.

È raro di questi tempi trovare analisi articolate dei principali problemi in ballo, i media preferiscono abbandonarsi alla propaganda piuttosto che cercare di capire e spiegare la complessità delle situazioni di fronte alle quali ci troviamo. Prendiamo quella terribilmente complicata questione che è il rapporto delle liberaldemocrazie occidentali con Pechino: da una parte i quotidiani main stream spiegano in questi giorni come l’Unione europea abbia scomunicato il nostro governo gialloverde per una sua intenzione di aderire alla cinese via della Seta, dall’altra in altre pagine interne registrano la censura del governo americano a Berlino, con conseguenze nei rapporti tra i servizi d’intelligence, per le scelte tedesche sulla Huwaei. Ai cacciatori degli scalpi salvin-demaiani non passa neanche per la testa di spiegare i nessi tra due fatti così evidentemente collegati.

È in questo contesto che si prova qualche sollievo nell’imbattersi ancora in riflessioni di un certo respiro. Di questo tipo è quella di Tony Barber, commentatore di cose europee del Financial Times, che sul quotidiano londinese dell’11 marzo, partendo dal libro di Simon Bulmer e William Paterson Germany and the European Union: Europe’s Reluctant Hegemon?”, spiega come dietro alle difficoltà che sta vivendo il Vecchio continente ci sia anche la questione apertasi dopo l’unificazione tedesca del 1871, con l’affermarsi di una potenza economica (e per un lungo periodo militare) che squilibrava tutti i rapporti di forza precedenti, contribuendo così pure a determinare le due tragiche guerra novecentesche.

La Comunità europea, poi Unione, è stata possibile per oltre quaranta anni anche perché la Germania è stata divisa in due, mentre gli ultimi quasi trenta anni sono stati vissuti nella speranza che il Trattato di Maastricht e poi l’euro risolvessero lo sbilanciamento creatosi alla fine dell’Ottocento. Analizzare quanto la realtà attuale corrisponda alle speranze dei due grandi patrocinatori (François Mitterrand e Helmut Kohl) della scelta dell’integrazione monetaria come anticipatrice di quella politica, è un compito da assolvere senza arrendersi all’inveterato propagandismo corrente, sapendo che il ben giustificato senso di colpa del popolo tedesco per gli orrori commessi tra 1933 e il 1945, che al momento inibisce qualsiasi voglia militarista, non può essere l’unico pilastro sul quale costruire un futuro.

Come evolverà “il potere” tedesco, riuscirà a superare la riluttanza ad assumere responsabilità solidali ben diverse da quelle assunte durante la crisi greca e da debiti sovrani, resterà un potere essenzialmente civile, saprà esprimere una qualche leadership reale? Le risposte agli interrogativi che si pone Barber possono essere diverse, ma saranno sempre sbagliate se le domande saranno puramente retoriche.

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