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Murgia, il classismo ai tempi del Coronavirus

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Michela Murgia loves coronavirus. Le tiene lontana la massa, sostiene, quel popolaccio lurido e pezzente ch’ella ostenta di amare, ma a debita distanza, di un amore secco, teorico, frigido, nella più distillata tradizione comunista. Questa Murgia, scrittora di un solo exploit, peraltro effimero, Abbacadora, Abracadabra, ma sul quale campa da quel dì, ama, non riamata, il coronavirus e va a dirlo da una esterrefatta Daria Bignardi, che, per l’occasione, scioglie il bigné del birignao e tenta di metterci una pezza.

Fatica sprecata: Murgia, aplomb da casa del popolo, pretese da nobildonna del regno di Sardegna (se non hanno pane, dategli il coronavirus), va presa in blocco, con la cultura sproporzionata, la simpatia travolgente, la raffinatezza analitica, il profondissimo rispetto dell’altro. Quel librarsi nei cieli alti della riflessione con la levità di un gabbiano nutrito di erudizione. Fascista è chi fascista fa. La “matria”. La società patriarcale. La difesa da prontosoccorso di quell’altro soggettino equilibrato e accattivante, Chef Rubio, quello che vuol serenamente far fuori sovranisti e sionisti e lei, a sirene spiegate contro gli sconcertati: ma cosa dite, buzzurri, incolti, bifolchi, è una iperbole.

Anche Murgia è una iperbole; vorrebbe il coronavirus “ancora un po'”: ora, lasciamo pur perdere il giochetto del “se l’avesse detto un altro, uno di destra, se l’avesse detto Salvini o la Meloni”: cosa sarebbe successo è chiarissimo, altro che iperbole, si sarebbe scatenata Murgia inveendo contro il fascista che è chi lo fa, la società maschilista, il razzismo, il nazismo, il sessismo: quante storie, Michela. Tutto già visto, già sentito, tutto strabusato e scontato. Piuttosto, è da rimarcare il curiosissimo concetto di solidarietà, di umanità, di socialità di questa Murgia qua. Eh, già. Ma non è la stessa paladina dei migranti senza limiti e confini, senza controlli e precauzioni? Non è la portavocia delle masse popolari, la paladona della sanità pubblica, del tutto pubblico nel nome di un nuovo rinascimento socialista? Non è quella del trasporto universale per il sale della terra, la difensora di ogni causa giusta, non è la stessa che si lascia ritrarre, mollemente abbandonata su una dormeuse, su morbidi cuscini mentre ride, languida e complice col prolifico disegnatore da centro sociale Zerocalcare in nome dell’amore proletario?

Il punto non è “immaginiamoci se la sparata del coronavirus ti amo l’avesse detta un altro”: il punto è che l’ha detta proprio Murgia. Ipsa dixit. Also sprach Zaramurgia. L’amica del popolo, ma, soprattutto, del giaguaro. Sai a Murgia quanto gliene frega del contagio, dei morti (tanto, son tutti vecchi o quasi…), delle immani conseguenze sociali ed economiche. Lei punta non alla scoperta di un antidoto, di un vaccino, viceversa al mantenimento dell’epidemia, così può viaggiare bella larga in aereo e per le strade, senza il volgo infame che schiamazzando sciama in processione. Anche se nessuno ci aveva mai provato, tranne, eventualmente, i due o tre lettori dell’Espresso ancora resistenti.

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