L'inattuale

Rassegniamoci a Sanremo

Guy Debord sosteneva che lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come parte della società, e come strumento di unificazione. Di somma inattualità, questa affermazione contenuta ne La Società dello Spettacolo, l’opera che forse più di ogni altra ha anticipato e descritto il tempo in cui viviamo, calza a pennello anche nella nostra contemporaneità. Sanremo è, nei fatti, la forma apicale dello spettacolo in questo Paese. La sua espressione più solenne. Un catalizzatore magico che ipnotizza mezza nazione e ne ammorba l’altra metà.

Il festival è questo Paese, parte di esso e uno zuccheroso collante che unisce molte coscienze in un’unica esperienza collettiva. Forse l’ultima esistente in Italia, se si escludono i grandi eventi calcistici. Criticarlo è doveroso. Non guardarlo altrettanto. Estraniarsene è superfluo poiché non c’è quasi nessuno che non ne parli; per sfuggirgli bisogna cercare vita oltre il satellite. Tuttavia, per quanto doverosa e a volte pertinente, ogni critica è inutile.

Si può naturalmente eccepire sulla messa in scena, sullo sviluppo testuale, scenografico e musicale, così come sulle scelte stilistiche, ma non sul senso. Non sulla sua natura. Lo spettacolo non è mai solo uno spettacolo; è un momento storico che ci contiene tutti. È la rappresentazione del tempo in un flusso di immagini, se fatto bene. Positivo per definizione poiché irrinunciabile. La bravura di un televisivo sta nel mettere sotto forma di immagini lo spirito del proprio tempo. Tradurlo cioè in una “narrazione” da offrire in pasto a chi vede durante una serata.

Amadeus, in questo, è stato impeccabile. Seppur tradisca qualche evidente stanchezza, egli è un eccellente alchimista, capace di trasmutare nello show tutte le anime del pop, in una grande epopea postmoderna che fonde vecchio e nuovo, classico e contemporaneo, kitsch e chic (poco), punk e melodia, comico e (purtroppo) drammatico. Una splendida amalgama festosamente pop. Un blob dalle mille forme straordinariamente magnetico. Dotato di un innegabile fiuto musicale, “Ama” cucina con luciferino acume una grande portata per tutti gli stomaci, proponendo con efficacia tutto il meglio (si fa per dire) che la scena musicale contemporanea abbia da offrire per solleticare il sonnacchioso pubblico della tv.

Dacché era un minestrone al bromuro, il Sanremo di Ama è invece una festa per gli occhi, manda in sollucchero al contempo appassionati e critici, i quali almeno hanno qualcosa di cui parlare. Altrimenti sai che palle… Tanto si sa, il festival è sempre quella roba là. Tutto si riassume al grido gioioso di “Viva lo sponsor!”. Sulle doti canore di alcuni partecipanti è lecito nutrire dei dubbi. Sugli abiti dei medesimi, anche. E che dire delle gag a base di papere e messaggi un po’ subliminali? Tutto giusto. Ma lo spettacolo in sé, no. Non può essere criticato. Sarebbe inutile, un vero sforzo vano.

In fondo non lo si potrebbe fare altrimenti. Esso è l’epifania del nostro tempo, la contemporaneità tradotta in immagini. Opporvisi con livore è come cercare di fermare il vento con le mani, come rifiutare la propria epoca. Quale persona dotata di intelletto ha mai apprezzato l’epoca in cui gli è toccato in sorte di vivere? Lo spettacolo, quello vero, non può essere combattuto con le critiche, può solo essere svilito con un altro spettacolo. Magari una parodia. Ma tanto oggi gli show sono anche le parodie di loro stessi. Per cui è tutto inutile.

Unico appunto per Ama: ciò che è davvero insopportabile è il civismo. Il civismo moralistico che appare al termine di qualche esibizione canora. Risparmiateci per favore le lagne e i messaggi sociali, la pubblicità progresso e il buonismo un tanto al chilo. I mugugni sul “facciamo finire le guerre” dovrebbero essere banditi dalla narrativa spettacolare. Ama dovrebbe rifilare un cazzottone a chi termina la sua canzone con un messaggio promozionale di impegno sociale.

Tolto questo, tutto va bene. Chiedersi se questa sia la migliore delle società possibili è una domanda ormai fuori moda. L’accettazione del tempo è anche accettazione delle sue manifestazioni. Sanremo è una di queste, pieno di queer, woke, antifa, peace and love. Perché l’aria che tira là fuori è questa. La tv fatta bene non è quella che contrasta con la sua epoca ma quella che la rappresenta. Guai a non capire il proprio tempo in televisione.

Per cui, a tutti i critici (compreso lo stimatissimo compagno di sito Max Del Papa), rassegniamoci allo spettacolo e seppelliamoci con una risata. L’alternativa che prese Debord è poco consigliabile. E poi sono tornati pure i Jalisse, che volete di più?!

Francesco Teodori, 10 febbraio 2024