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Stop ai licenziamenti e sgravi al Sud, roba da anni Settanta

Converrebbe rileggere l’intervista rilasciata, poco più di quaranta anni fa, da Luciano Lama ad Eugenio Scalfari sulla cosiddetta svolta dell’Eur. Anzi converrebbe che la rileggesse il suo successore, Landini, e una pattuglia di suoi epigoni sindacali oggi al governo. Allora, con grande coraggio, il capo del sindacato ammise il grande errore commesso (ormai ovviamente era troppo tardi) nel considerare il salario una variabile indipendente. Insomma l’entità della retribuzione non doveva avere a che fare, secondo questi scriteriati, con l’andamento economico dell’impresa. Il principio che sottintendeva era che l’imprenditore, inteso come monopolista, se ne approfittasse sempre e comunque e che dunque il monte retribuzione potesse e dovesse essere fissato quasi per legge: tanto vi era «ciccia» per tutti. Con quasi due milioni di disoccupati, l’Italia di allora stava scoppiando e imprese e imprenditori scappavano. Lama capì il drammatico errore commesso dai suoi predecessori e dalla sinistra.

Oggi siamo in un’emergenza occupazionale simile, ma purtroppo non si vedono Lama in giro. La variabile indipendente non è più il salario, ma ciò che neanche si sarebbero sognati negli anni 70, e cioè il lavoro stesso. Il lavoro per governo e una parte del sindacato è una variabile indipendente. Le imprese non posso fallire, non possono licenziare, e sono costrette a subire ulteriori e nuove regole burocratiche rispetto a quelle esistenti. Pensate un po’ voi la follia, il governo che si dice ideologicamente contrario al precariato, si è inventato l’assurdo norma (un unicum mondiale) in cui i contratti a tempo determinato (tanto odiati e oggi in Italia sono difficilissimi da allungare) sono prorogati automaticamente per legge. Neanche in Unione Sovietica.

Venerdì Maurizio Ferrera, in un lucido pezzo sul Corriere della Sera, raccontava come l’Italia, sia l’unico Paese in Europa, se si escludono pochi mesi in Slovacchia, ad aver imposto il blocco dei licenziamenti. Siamo alla follia. E soprattutto all’incomprensione di base di come funzioni non tanto il mercato del lavoro, ma una semplice impresa. Pretendono che il cavallo vada ad abbeverarsi al lago, ma il lago è salato e vuoto. Un tempo si imponeva alle imprese il prezzo del lavoro, oggi si impone loro il numero degli occupati, quasi fosse una variabile indipendente rispetto alla domanda di beni e servizi. A pensarci bene, le contraddizioni di oggi sono superiori financo rispetto a quelle di ieri. L’impresa privata è considerata come la pubblica amministrazione.

Un’organizzazione burocratica e non di mercato, in cui ci sono pure dei volenterosi, ma in cui il numero degli addetti deve rispondere alle richieste della politica e non già alle ragioni dell’economia. E se ciò può avere qualche ragione nella gestione della cosa pubblica, non ne ha alcuna nel settore privato. In un’economia di mercato non si assumono 40mila dipendenti (come sembra fare il ministro Azzolina) con un decreto. Si dirà che il governo ha dovuto tamponare una ferita improvvisa e grave. Benissimo.

Ma c’è un sovrappiù ideologico. Che travolge tutto, persino l’inesperienza e l’imprevedibilità della crisi. Prendete gli sgravi fiscali previsti per chi assuma al Sud. Di per sé una fiscalità di vantaggio per dare uno spunto ad un settore non è sbagliato. Sono decenni che operazioni di questo tipo sono state fatte in Italia: senza alcun risultato. Oggi sarà ancora peggio. La crisi è infatti generalizzata. Ci si perdoni la franchezza: ma in un momento in cui il Pil è a pezzi, la disoccupazione rischia di toccare livelli da anni ’70, utilizzare le poche risorse che stiamo racimolando grazie all’espansione del debito, per risolvere la storica arretratezza economica del Sud, è un titolo buono per le gazzette, non per il Mezzogiorno.

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