Cultura, tv e spettacoli

Un baraccone senza qualità: cosa ci resta di questo Sanremo

Chi ha vinto? La Rai e Amadeus, che hanno creato una macchina da soldi. Ma vi spiego perché l’evento non è credibile

Annalisa Mango (2)

Vincere a Sanremo per un cantante è come vincere a Monopoli per un finanziere. Però vincere a Sanremo per un cantante è come vincere al Monopoli, quello vero. Non solo per il premio partita, che sta già sui due-trecentomila euro, c’è poi tutto l’indotto e ci si campa un anno, come un tempo Miss Italia con gli sponsor, le inaugurazioni dei supermercati, le fiction di regime, le comparsate da discoteca.

Allora complimenti a chi ha vinto, Angelina Mango, una degli annunciati, a chi tirerà l’estate dei soldini facili “ma anche” a chi ha perso perché per male che gli sia andata torna indietro con 50mila puliti e la patacca sulla spallina: io sono stat* a Sanremo. Che è un moltiplicatore woke con dentro i generatori di stereotipi woke di cui parla Borgonovo, e mettiamoci tra gli autori anche il Ciuri dei trappoloni, della malagestione Stravolta dal qua qua. Alla fine, come sempre, Sanremo lo vincono tutti e prima di tutti lo vince AmaCiuri: chi glielo fa fare di mollare se hanno imbroccato la formula, hanno fatto i 10, 11 milioni fissi che in senso relativo è mediocre ma col sessanta, settanta di share è un assoluto che non si può rifiutare?

Magari la gente segue meno la tv generalista ma chi la segue sta tutta qua, e lèvati il cappello. E così si salva anche, qui ha ragione Capezzone, una dirigenza arruffona, sventata, avventata, che vuol fare, lei, causa alla star hollywoodiana per due scarpette in un frusciare apocalittico di code di paglia. Tutto scentrato in questa settimana di politica carsica fra trattoristi e moralisti all’orsacchiotto, ma i vari Sergio e Ciannamea e via nominando la sfangano e accendono ceri ad AmaCiuri, che, per cambiare, per i prossimi 5 anni potrebbe diventare CiuriAma, il Fiore davanti, il Nasone dietro a fare il direttore artistico sgravato dalla conduzione sfibrante. A meno che Ama non sia saturo di tutto, anche di successo, come ci è a sprazzi sembrato in questa Anabasi del Nulla.

Sempre si vince, come nelle sagre di paese. E che altro è il baraccone elettronico rutilante? Se l’obiettivo è creare l’evento, ha vinto la Rai pur fra i mille casini, ha vinto Ama che di casini ne fa pochi perché non rischia e se l’altro, il Ciuri, si allarga, comunque lui lo copre, che è come coprire se stesso. Se però l’obiettivo è fare l’evento credibile, allora da discutere ce n’è. Ma che gli frega di fare l’evento credibile? Sanremo vince in questo: che è chiaro, è acquisito che non cerca affatto la qualità, quando dice che Geolier e Alfa sono il meglio che c’è in giro, che i Ricchi e Poveri sono “energia pura”, lo dice sapendo di mentire, di scherzare senza dover essere preso sul serio.

Come il vecchio Processo di Biscardi, che una volta fu graziato da un giudice con la seguente, squisita motivazione: non è una cosa seria, si capisce che è farsesco. A questo punto, tutto si può fare a Sanremo, vale tutto e valgono i generatori automatici di stereotipi, vale la Teresa Mannino contro il bianco maschio tossico che, se non andiamo errando, è esattamente l’esemplare che ha sposato. Ma perché, quelli che se ne sentono delusi cosa credevano di trovare? Chi vi credete che voi siamo, per i capelli che portiamo!

Un conto è fare i pacifisti di Hamas contro l’Occidente imbarbarito, un conto è andare nella terra promessa dove il Sanremo dei soldi facili non sarebbe ammissibile. L’importante, per noi, è dire che questa è attrazione commerciale ma lasciate perdere l’arte in tutte le sue sfumature. Per dare una sola, minima dimostrazione: Angelina, figlia di Mango, finché propone le sue sbobbe latine da privé di discoteca è solo una ragazzina vagamente divagante, poi se le capita di cantare qualcosa del padre si avvicina ad una cantante, ad una artista. Ma chi è artista a un certo punto ha il dovere di osare. Mengoni avrà anche una bella voce (ma è sopravvalutatissimo), però se si limita a fare l’indossatore, l’aggregatore di sterotipi visivi woke, che rispetto merita? Le sue sono canzonette irrisorie, da accendini allo stadio. Non rischia, non mette a profitto il talento che il dio del gender gli ha fornito. Altri invece sono lì solo per fare da tramite da woke a woke, da gender a body, come la inconsistente ma ingombrante Big Mama. Così Sanremo può ribadirsi coda lunga, di lucertola, del potere, della politica che impone gli stereotipi.

Eccolo lo stato dell’arte, ecco come stanno le cose. Ma se stanno così va pur detto, se non c’è una sola canzone di trenta che non sia una trappola per succhiare soldi, va pur detto che questo non è decente e se l’intera baracca è finalizzata a questo, non è lecito, come fanno in tanti giornalisti stilisti, scantonare sulle giarrettiere di Annalisa o i cazzi volanti di Rosa il Chimico, che tra l’altro è roba che i Rolling Stones s’erano inventati nel 1973. Tutto si ricicla, cosa credete.

Fatte queste precisazioni, questo è l’evento e si crea così. Va bene farlo e va bene segnalarlo per quello che è, perché, non ci stancheremo mai di ricordarlo, questo Festival non ha niente a che vedere con la canzone, è sovrastruttura, intesa come organizzazione spettacolare del potere, ed è finanza non di Monopoli ma di soldi veri, fatti di streaming, tanti, di dischi venduti, pochi, di concerti, tanti, di markette, un mare, di messaggi woke, un oceano, di tendenze, di griffe, di stilisti, di tormentoni estivi, insomma l’indotto colossale che parte dal Moloc.

Vogliamo anche dire, già che ci siamo, che da sempre come c’è il calcioscommesse c’è un Sanremo scommesse dove in tanti cercano di infilarsi, di investire? E investono, organizzazioni legali e meno, anche sulle piattaforme, drogando gli streaming e i televoto che giustificano o determinano certi exploit (accade poi che il sistema salti, e qui tutto quello che si può pensare è vero). È uno di quei segreti di Pulcinella, che quella del Festival è anche una storia di manovre che si adeguano ai tempi e alle tecnologie. A ripulire l’immagine, a stornare i sospetti, a tutto giustificare pensa la grancassa della ditta, ma i telegiornali che in piene guerre e sciagure aprono con Big Nothing e alle guerre e sciagure lasciano a stento 10 minuti su 30, meritano una notazione e magari anche aspra, ci sembra.

Come la meritano i cacciatori di dote politica, i Ghali, e Big Mama, subito proiettati nell’immaginario ginocchione woke. Ghali che compie l’attimo e incolpa Salvini “per le sofferenze della mia gente”. Quale gente? Quanto al Geolier, il suo video è un concentrato di estetica camorristica femminicida (il che, ad uso dei cretini, non implica che egli sia malamente coinvolto, ci limitiamo all’estetica) ma stavolta, siccome “finisce bene”, nessuno si accorge, non Saviano, non la Cecchettin crew. Sanremo è politico sempre, a partire dell’opportunismo.

E vince la figlia di Mango, che tira l’estate prossima. Che sorpresa!

Per cui è doveroso seguirlo il Baraccone Elettronico, denunciarlo, sviscerarlo e, se occorre (occorre sempre), sputtanarlo. Il nostro lavoro, crediamo di averlo fatto anche questa volta, e, credetelo pure, in condizioni più che critiche. Con passione rabbiosa, come sempre. Sanremo tiene compagnia, e noi abbiamo cercato di fare lo stesso sulla sua pelle: è grave? Alla fine hanno vinto tutti, come sempre sarà, ma una lacuna, una sconfitta c’è: la latitanza di Joe Biden. In questo carrozzone delirante, farneticante, a fare il ballo del qua qua nessuno meglio di lui. Ma forse potremo averlo l’anno prossimo, quando non sarà più presidente dello stato libero di Marasma.

Max Del Papa, 11 febbraio 2024

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