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9 novembre 1989: la caduta del Muro di Berlino ci ricorda i fallimenti del comunismo

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“Da stasera la frontiera è aperta”. Queste furono le prime parole pronunciate dal leader del partito comunista di Berlino, Gunter Schabowsky, esattamente il 9 novembre 1989, data che avrebbe segnato la fine della Ddr in Germania.

Quasi cinque milioni di tedeschi passarono dalla parte est a quella ovest di Berlino in meno di una settimana, due milioni di persone varcarono il confine tra il 9 ed il 12 novembre, migliaia di giovani si arrampicarono scavalcando l’enorme barriera di cemento armato. Per ventotto anni, il Muro di Berlino non ha solo rappresentato la geopolitica di un Paese conteso tra le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale; ma ha incardinato anche la contrapposizione di due visioni del mondo opposte: quella occidentale, a sfondo stelle e strisce, fondata sui principi di libertà e democrazia, libero mercato, e quella sovietica a falce e martello, sinonimo di totalitarismo e pianificazione economica.

Ancora oggi, numerosi sono i rimpianti o i “sì, però” che cercano di ridimensionare storicamente la Germania Est e minimizzare le violenze – sia fisiche che morali – perpetrate a 17 milioni di tedeschi sotto “l’ombrello rosso”.

Nonostante questi tentativi di revisionismo storico – o, perché no, di vero e proprio innamoramento dell’ideologia comunista – i dati sono inconfutabili.

Nel 1974, il governo della Germania Ovest, guidato dal socialdemocratico Schmidt, ha stimato il numero di vittime civili tedesche causate delle violenze sovietiche dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Le cifre sono impressionanti: 600 mila morti ed oltre 200 mila persone deportate nei gulag in URSS. Non solo, durante gli oltre 40 anni di dittatura nella Germania orientale, nel carcere della Stasi a Hohenschönhausen furono imprigionate più di 40 mila persone, mentre oltre 200 mila divennero “collaboratori informali” dell’organizzazione. La bellezza di una spia ogni 85 abitanti.

Insomma, è evidente che una parte consistente della Germania ha conosciuto infelicemente la ferocia del totalitarismo in tutte le sue varie sfaccettature, dal regime nazista fino a quello comunista.

E qui arriviamo al punto. La caduta del Muro di Berlino ed il carattere totalitario del comunismo finalmente in luce, soprattutto dopo l’accesso agli archivi della Stasi dal 1991, non hanno solo evidenziato la necessità di difendere quei valori di matrice liberale portati in Europa dopo la sconfitta dei totalitarismi fascisti e nazisti; ma hanno messo a nudo anche l’ipocrisia di una certa sinistra, sì antifascista, ma solo in nome dell’instaurazione di un totalitarismo di segno opposto (comunista).

Ayn Rand, tra le più grandi scrittrici libertarie, già nel 1962 – un anno dopo la costruzione del Muro – descriveva il carattere tirannico e speculare di nazismo e comunismo: “In nome dell’umanità, essi accettano l’abolizione di ogni libertà e di ogni diritto, le esecuzioni senza processo, i campi di lavoro, gli omicidi di massa di milioni di persone”.

La Rand spiegava l’impossibilità di definirsi allo stesso tempo comunisti ed antifascisti o viceversa. Anzi, l’unico antifascismo contemplabile è quello in nome della libertà politica, della democrazia e contro ogni totalitarismo di qualsiasi segno e colore. Seguendo il pensiero della scrittrice russa – poi fuggita a soli ventun anni negli Stati Uniti – la libertà politica deve presupporre anche il rispetto e la tutela della libertà economica. E questo fu un altro dei caratteri distintivi delle due Germanie, poi evidentemente esploso dopo la caduta del Muro.

Seguendo le teorie liberiste di Ropke ed Eucken, tra il 1949 ed il 1975, il Pil pro capite della Germania Ovest passò da 4 mila a 14 mila dollari, attestandosi oltre i 21 mila fino al 1989. In Germania Est, causa il centralismo sovietico ed il controllo asfissiante e repressivo della Stasi, il Pil pro capite raggiunse al massimo i 9 mila dollari. Meno della metà di quello della Germania occidentale.

Al di là di ogni tentativo di revisionismo storico – il nostalgico comunista ci risponderà con la solita prelibatezza: “Ma quello della Germania Est non fu vero comunismo!” – il sistema economico e politico centralizzato e finalizzato al raggiungimento dell’uguaglianza si è sempre contraddistinto per una generale e dilagante arretratezza rispetto alla prosperità dei Paesi liberaldemocratici – Cina compresa, finché non ha aperto parzialmente le porte della propria economia. 

In realtà, il comunismo si è realizzato alla perfezione, è tutt’ora in corso e tutt’altro che in crisi, visto che il regime cinese si sta avviando a diventare la potenza egemone del XXI secolo. Il punto centrale sta nel capire se i sistemi politici dei Paesi occidentali – così tanto messi in discussione dalle restrizioni durante il periodo pandemico – saranno in grado di contrapporre con forza la spada della libertà e della democrazia, contro uno dei totalitarismi politici più chiusi al mondo.

Forse dovremmo riportare in auge quei cinque milioni di tedeschi che lasciarono la parte orientale del proprio Paese per raggiungere il sogno occidentale. Una fuga che segnò il fallimento definitivo del comunismo in Germania. Ancora una volta, dittatura e povertà avevano lasciato posto a democrazia e libertà.

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