Economia

Il cacao batte le criptovalute: prezzo quasi triplicato nel 2024

Il prezzo sta salendo al punto da riportarlo al rango di bene di lusso. Diversi i fattori, da una produzione ancora basata su piccoli coltivatori alle strozzature della logistica

cacao (Cnbc)

L’Europa è il continente che maggiormente incide sulla produzione totale del cacao, con un consumo che si attesta al 47 per cento, seguita dal 20 per cento che viene consumato in Nordamerica, mentre il continente asiatico ne consuma il 16 per cento. In coda il Sudamerica, che ne consuma il 13 per cento, mentre l’Africa, uno dei maggiori paesi produttori, ne consuma soltanto il 4 per cento.

Bene di lusso

La pianta del cacao era già sfruttata, per farne bevande corroboranti, fino dal 1800 a.C. e la sua coltivazione e trasformazione hanno attraversato tutta la storia umana. Benché, per noi abitanti del Vecchio Continente a cavallo tra il primo e il secondo millennio, il cioccolato sia diventato un alimento quasi essenziale, impiegato persino come aromatizzante in campo farmaceutico, negli ultimi mesi il suo prezzo sta salendo al punto da riportarlo al rango di bene di lusso, come fu da noi fino al primo ventennio del secolo scorso.

Il cioccolato, principale prodotto derivato dal cacao, è ancora facente parte del c.d. paniere dei prezzi al consumo 2024, in cui è classificato al numero 112 della classifica come “bene ad alta frequenza d’acquisto”.

Ma cosa sta succedendo, da circa un anno a questa parte nei supermercati, nelle industrie dolciarie e nelle pasticcerie italiane? Il prezzo del cioccolato è quasi triplicato per quello ad elevato contenuto di cacao e almeno raddoppiato per gli altri tipi. L’aumento in un solo anno è stato superiore a quello della quasi totalità dei beni di largo consumo e, in questo caso, inflazione e diminuzione del potere d’acquisto dell’Euro c’entrano poco.

La pianta del cacao

Ma facciamo un passo indietro nella storia, per capire meglio quei fenomeni sociali e geopolitici che influenzano la coltivazione della pianta del Theobroma Cacao, albero che cresce bene esclusivamente nelle zone tropicali caratterizzate da clima caldo e umido, e dai cui frutti, simili a noci di cocco, si estraggono i semi che costituiscono la sostanza in purezza.

Originaria del Centro e Sudamerica (Ecuador, Venezuela, Brasile) la pianta del cacao è stata introdotta nel continente africano, principalmente in Gabon e Costa d’Avorio, ma anche in Asia, in Indonesia e nel delta del fiume Mekong in Vietnam.

La produzione

Tuttavia, a fronte di una produzione annuale teorica di circa 2000 Kg per ettaro, la produzione reale si aggira attorno a soli 500 Kh/Ha e ciò per una ragione principale: nelle zone di produzione del cacao, a differenza di quanto avviene per altra frutta esotica e prodotti tropicali, in cui la coltivazione su larga scala è dominata dalle grandi industrie multinazionali come Delmonte, sono, incredibilmente, piccole comunità locali a conduzione pressoché familiare, a coltivare l’albero del cacao, con un ricavato bassissimo per i contadini e numerosi passaggi di trasformazione e lavorazione prima di arrivare al cioccolato, anche soltanto quello in forma grezza e non direttamente commestibile poiché troppo amaro e secco.

Al netto delle più appassionate campagne sociali, care alla sinistra mondiale ed alle posizioni pauperiste e anticapitaliste continuamente riaffermate persino dal Papa, è indiscutibile che vi sia un enorme squilibrio tra i mezzi limitatissimi ed arretrati dei tantissimi piccoli produttori che devono fare business con il mostro del mercato economico mondiale.

Molti si chiederanno, a questo punto, perché l’agricoltura moderna, coi suoi principi di razionalità produttiva, i suoi mezzi tecnologici, il suo facile accesso al mercato, non abbia ancora sottratto  una coltivazione tanto pregiata ai poveri campesinos che ogni giorno tagliano le fave del cacao, accontentandosi di un misero guadagno.

Qui la cosa si fa complessa ed hanno un loro bel ruolo i governi di quei Paesi tropicali, molto spesso politicamente travagliati e tutt’altro che stabili. Paesi ove l’agricoltura si pratica o nei più poveri villaggi oppure nelle grandi industrie straniere. Nessuna via di mezzo. Sono popolazioni composte o da poveri o da ricchi, senza una vera classe media.

Scarsità dell’offerta

Paradossalmente, pur essendo in costante crescita la curva della domanda del cacao, accade che i coltivatori siano sempre meno. Sappiamo che, nella teoria economica, il mercato è il luogo ove offerta e domanda s’incontrano, ma le cose non vanno puntualmente così e non sempre a maggiore richiesta corrisponde un’offerta proporzionalmente crescente.

Si è calcolato che nel 1980 la fetta di guadagno complessivo di un plantador fosse pari a circa il  16 per cento del valore di mercato, mentre oggi sarebbe sceso a poco più del 6 per cento. Il c.d. Terzo Mondo, ammesso che esista ancora, è tale perché in esso vi abitano popolazioni gravate da un sottosviluppo industriale e commerciale che tutti conoscono, ma altresì indissolubilmente legate a elementi culturali e sociali che, di fatto, impediscono una reale transizione verso una civiltà più equa e remunerativa e tale handicap ha caratteristiche tipicamente endogene.

L’illusione socialista

Al di là delle considerazioni più utopistiche e pericolose, in quanto tutte recanti in sé il germe della guerra, non bisogna dimenticare che non sono pochissime le nazioni in cui ancora si propina al popolo la fascinazione di abolire la povertà facendo diventare ricchi i poveri oppure, peggio ancora, di abolire i ricchi a favore di una grande massa di benestanti di pari diritti e dignità nel grande paradiso socialista.

Poi, si sa, le cose non vanno nel senso promesso dai vari libertadores, il livello di vita medio rimane quello dei padri e dei nonni e la gente finisce per accontentarsi di una quotidianità nella quale la pagnotta sicura (che sia derivata dal cacao o dalla coca cambia poco) è l’unica vera fede e unico modo per condurre un vita senza troppi scossoni.

Ciò accade soprattutto nei Paesi ove in una sola generazione si sia sperimentata almeno per tre volte la revoluciòn e, se non si facesse tale considerazione inoppugnabile, difficilmente, noi che ricorriamo al sindacato per il minimo sgarbo del datore di lavoro potremmo comprendere come possano tollerare quel misero lavoro.

Facile inalberarsi e rivendicare i sacrosanti diritti dei “poveri” coltivatori di cacao dall’alto della nostra poltrona del salotto, magari sorseggiando una fumante tazza di cioccolata calda. Per quanto ci possano sembrare particolarmente poveri, in quella non facile condizione di lavoro e di vita, la domanda sarebbe: “Siamo sicuri che se lavorassero per una multinazionale, con un regolare contratto di lavoro, sarebbero più benestanti e considerati?”.

Nel mentre ci appassioniamo alla tematica della produzione del cacao “equa e solidale”, la realtà si dipana più in basso e più inesorabile della teoria sociale di chi cerca sempre di trovare una scusa di alto livello per non scendere a quello, infimo, della povertà.

Nel Terzo Mondo che avevamo nel cuore d’Europa, quello dei Paesi comunisti nei quali viveva gente che aveva poco e si faceva un mazzo immenso per poi tornare poche ore in una casa di proprietà statale, si mangiava due o tre volte al giorno. Poco ma garantito, al riparo da responsabilità e rischi legati all’economia di mercato, non pagando tasse ad altri stati e già sapendo cosa avrebbero fatto da grandi i figli.

Buttate quelle popolazioni nel ribollente calderone di un’Europa fittizia e divisa, private  dell’ombrello protettivo del Patto di Varsavia, le cose si sono rivelate assai meno attrattive di quanto sperassero Hans o Dimitri e non pochi di loro tornerebbero indietro al loro vecchio e deprecabile tran tran dell’epoca comunista, della quale si tengono ancora cari i simboli, gelosamente custoditi nel portafoglio di plasticaccia cinese.

I coltivatori di cacao, categoria che costituisce quasi un’eccezione statistica, preferiscono vivere del poco che hanno, con la certezza che la domanda sarà sempre maggiore di quanto riescano a produrre, tutelati dalla caratteristica biologica di quella pianta, che si rifiuta, con orgoglio tutto botanico, di  fruttificare in California o in Italia, per cui se vogliamo il cioccolato, dovremo sempre rivolgerci a loro, se non si voglia accontentarsi del modesto surrogato.

È la finanza, bellezza

Ma non si creda che, con la dura lex di un’economia basata su inevitabili ricchi che creano e danno lavoro a rassegnati poveri, si chiuda il cerchio della filiera di quella profumata sostanza già amata dai greci e dai romani. Guarda caso, banche, finanza e fondi d’investimento giocano un ruolo poco noto ai più, ma altrettanto importante nella filiera del cioccolato.

Giorni orsono, non ricordo quale analista finanziario, ma era uno di quelli bravi, faceva presente che nel 2024 il cacao ha reso ai suoi investitori più delle criptovalute.

Sembra incredibile, ma sta iniziando la “speculazione finanziaria” sul cacao, anche ben oltre la compagnia di giro degli operatori del settore dolciario. Quando un bene si apprezza, e di tanto, sui mercati, qualcuno comincia ad investirvi cifre sempre maggiori: è la finanza, bellezza.

Persino uno Stato sovrano, la Repubblica Dominicana, da un po’ di tempo invita, attraverso un sito ufficiale disponibile anche in italiano, ad investire nel loro prodotto, chiaramente rivolgendosi e strizzando l’occhio a operatori finanziari e risparmiatori del mondo intero.

Sappiamo tutti che, come accade anche ai marchi che si quotino in Borsa, quando la finanza internazionale butta un occhio su un mercato particolare, per il consumatore, per intenderci quello che compra al supermercato, sono guai.

Filiera lunga

Oltre alle ragioni di tipo logistico e mercantile, quale la attuale necessità per i cargo di circumnavigare l’Africa essendo rischioso risalire il Mar Rosso verso il Canale di Suez, anche il prezzo all’ingrosso del cacao ha subito un rincaro di enorme entità, al punto da destare grandi preoccupazioni per l’intero comparto dolciario e sicuramente, come già accadde in passato per altri beni di produzione geograficamente limitata come certe spezie, le ripercussioni sul mercato sono e resteranno per un bel po’ consistenti.

Sicuramente è in atto una grande speculazione, trattandosi di un bene ormai irrinunciabile nella dieta continentale, ne vedremo sicuramente delle belle, poiché, nel giro immenso che la fava di cacao deve fare per giungere sulle tavole in forma di cioccolato, sono interessati numerosi settori già messi alla frusta prima dal Covid, poi dalle guerre in corso e dalle importanti modifiche apportate alle rotte marittime che solcano i tre oceani interessati a quel commercio.

Quante ripercussioni economiche potrà avere questa folle corsa al rincaro del cacao, parlando soltanto della nostra nazione, è tutto da sperimentare. Se ne sapessi prevedere durata ed esiti, con tutto il bene che vi voglio, non starei qui a scriverne e saprei di sicuro a chi offrire una ricchissima consulenza. Ricordo che, se non vado errato, una primaria industria italiana di oggigiorno si chiama Ferrero e impiega cioccolato per il 90 per cento dei suoi prodotti.