Economia

No, nemmeno l’idrogeno verde farà miracoli

Ce la farà mai a diventare da mito a realtà? La strategia Net Zero ci punta, ma è fallimentare per la mobilità e più della metà dell’energia per produrlo va dispersa

Auto a idrogeno

I più âgée tra di voi ricorderanno sicuramente le due serate del “Beppe Grillo Show” trasmesse su RaiUno alla fine del 1993, quelle che videro il rientro del comico genovese in Rai a sette anni dalla sua ultima apparizione a “Fantastico”, da cui fu allontanato a seguito della sua improvvida battuta sui socialisti.

In particolare, ricorderete una delle performance più a effetto di quello spettacolo: la prima auto a idrogeno sul palco del Teatro delle Vittorie e Beppe Grillo che respirava gli scarichi dell’auto come fossero benefici suffumigi.

Si può quindi dire che il grande pubblico abbia “conosciuto” per la prima volta l’idrogeno proprio a seguito di quello show. Per inciso, a trent’anni da quello spettacolo, l’auto a idrogeno è ancora ferma agli stessi livelli tecnologici di allora, e non a causa delle perfide Sette Sorelle che, a detta degli ambientalisti all’amatriciana, avrebbero osteggiato in tutti i modi la sua diffusione per difendere la loro supremazia energetica, ma per limiti intrinseci che analizzeremo più avanti.

Detto tra noi, quello spettacolo segnò l’inizio della spettacolarizzazione e della banalizzazione della tecnologia, aspetto che caratterizzerà in seguito tutta l’attività del comico e che si ritroverà, quindici anni più tardi, nelle ricette grilline – non solo inutili ma irrealizzabili e persino dannose – già tutte presenti in nuce in quello show.

Un po’ di teoria

Ma, come al solito, procediamo con ordine e vediamo cos’è l’idrogeno. Tutti voi ricorderete dai banchi di scuola che l’idrogeno è il primo elemento della tavola periodica, l’elemento base dell’universo da cui si sono originati tutti gli altri elementi naturali.

Tuttavia, nonostante sia l’elemento più abbondante sulla Terra, l’idrogeno allo stato libero è pressoché inesistente: si può trovare nella sua forma molecolare (H2) in tracce (0,00005% = 0,5 ppm) negli strati alti dell’atmosfera. Unica eccezione fino ad oggi, un giacimento di idrogeno libero puro al 98 per cento di origine fossile scoperto nel 2012 nel villaggio di Bourakébougou, in Mali, durante lo scavo di un pozzo.

Si stima che quel giacimento contenga 5 milioni di tonnellate di idrogeno. Tuttavia, nonostante questa scoperta abbia scatenato una nuova caccia all’oro (non a caso, l’idrogeno in giacimenti naturali si definisce “idrogeno d’oro”), tranne alcuni altri giacimenti di entità molto più modesta, uno dei quali si trova ad esempio in Nebraska, ad oggi quel giacimento è rimasto un unicum nel suo genere.

Legato ad altri elementi, invece, l’idrogeno è presente in una vasta gamma di composti chimici, primo tra tutti quello che ha reso possibile la vita sulla Terra: l’acqua. Nell’acqua, due atomi di idrogeno si legano con un atomo di ossigeno a formare uno dei composti chimici più stabili in natura (H2O). La reazione di formazione dell’acqua è fortemente esotermica: il calore che si sprigiona durante la reazione (“entalpia di formazione”) vale 285 kJ/mol che, tradotto in unità di misura “potabili”, equivale a 4,4 kWh di energia sprigionati per ogni kg di acqua prodotta.

Utilizzi dell’idrogeno

L’idrogeno viene utilizzato oggi in larghissima parte per produrre altri composti. In particolare, ammoniaca, alcool metilico, concimi per l’agricoltura e prodotti petroliferi, nonché nell’industria metallurgica per il trattamento dei metalli. Accanto a questi utilizzi, una piccolissima nicchia è rappresentata dalla cosiddetta “mobilità a idrogeno” come vedremo in seguito.

Metodi di produzione

La produzione annua di idrogeno in Italia si attesta intorno ai 115 milioni di tonnellate, la stragrande maggioranza della quale (98 per cento) avviene attraverso il trattamento degli idrocarburi. Le metodologie di produzione industriale sono essenzialmente quattro:

  1. Steam reforming del metano;
  2. Gassificazione del carbone;
  3. Ossidazione parziale degli idrocarburi;
  4. Pirolisi del metano.

Tutti questi metodi, tuttavia, hanno come effetto collaterale la produzione di CO2 in quantità più o meno grandi a seconda del processo produttivo.

Il restante 2 per cento della produzione industriale di idrogeno avviene invece per elettrolisi dell’acqua. L’elettrolisi è il processo chimico attraverso il quale un composto chimico viene scisso nei suoi elementi costituenti per mezzo del passaggio di una corrente elettrica. L’elettrolisi dell’acqua si realizza immergendo in una vasca contenente acqua distillata in cui è disciolto un elettrolita (di solito lo ione solfato SO4=) due elettrodi di platino (materiale inerte che non entra nella reazione chimica), un “catodo” e un “anodo”.

Si fa poi scorrere nel sistema una corrente elettrica che fornisce alle molecole dell’acqua l’energia necessaria per scindere il forte legame elettrochimico tra gli atomi di idrogeno e quelli di ossigeno, i quali si liberano sotto forma gasosa in corrispondenza degli elettrodi: l’ossigeno all’anodo e l’idrogeno al catodo. Questo consente così di separarli e raccoglierli in appositi contenitori.

I colori dell’idrogeno

Come abbiamo visto, ognuno dei metodi di produzione industriale dell’idrogeno a partire dalla manipolazione degli idrocarburi libera CO2 come sottoprodotto. È questo il motivo per cui, nell’economia green, l’idrogeno prodotto mediante questi processi non è contemplato come alternativa percorribile.

Allo scopo di identificare la provenienza dell’idrogeno, le associazioni internazionali del settore hanno quindi stabilito un codice di colori a seconda del grado maggiore o minore di produzione di CO2 coinvolta nel processo. Questi sono, in ordine decrescente:

  • Idrogeno marrone o nero, quello prodotto per mezzo della gassificazione del carbone.
  • Idrogeno grigio, quello prodotto per mezzo dello steam reforming del metano.
  • Idrogeno turchese, quello prodotto dal metano per pirolisi.
  • Idrogeno giallo, è quello prodotto per elettrolisi utilizzando l’energia elettrica della rete. Non genera CO2 di per sé ma lo fa indirettamente attraverso la quota di energie fossili del mix energetico della rete.
  • Idrogeno rosa o viola o rosso, quello prodotto per elettrolisi utilizzando energia elettrica dal nucleare. Anche in questo caso, la produzione di CO2 non è diretta ma è quella determinata dalle emissioni del nucleare (circa 0,11 kgCO2/kWh).
  • Idrogeno blu, anch’esso prodotto per steam reforming del metano come l’idrogeno grigio, con la variante che le emissioni di CO2 vengono in questo caso successivamente catturate.
  • Idrogeno verde, dulcis in fundo – o in cauda venenum, a seconda dei punti di vista! – l’idrogeno verde è quello prodotto per elettrolisi utilizzando soltanto energia elettrica da sorgenti rinnovabili (sole, vento, idro, biomasse).

L’idrogeno come vettore energetico

Poiché l’idrogeno ha la fortissima tendenza a legarsi con l’ossigeno dell’aria in una reazione fortemente esotermica (4,4 kWh per ogni kg di acqua prodotta), poter disporre di idrogeno puro equivale a disporre a tutti gli effetti di un combustibile vero e proprio. Tuttavia, per ottenere idrogeno puro occorre spendere dell’energia per liberarlo dai legami con gli altri elementi in cui è in combinazione.

Ecco quindi che esso svolge la funzione di vettore energetico, cioè di “trasportatore di energia”: spendo dell’energia per ottenerlo allo stato puro e riavrò una parte di quella stessa energia quando lo farò ricombinare con l’ossigeno dell’aria. Perché solo una parte? Perché, come in ogni trasformazione termodinamica, una parte più o meno grande dell’energia spesa andrà persa sotto forma di calore: la solita dura legge di Carnot.

Ruolo nelle strategie di decarbonizzazione

L’idrogeno verde come vettore energetico riveste un’importanza fondamentale nell’ambito delle strategie di decarbonizzazione, cioè delle tecnologie che non introducono nuove emissioni di CO2 nell’ambiente. Fu Jeremy Rifkin nei primi anni 2000 a ipotizzare per primo la creazione di un’economia green basata sull’idrogeno ottenuto da fonti rinnovabili, da lui per primo definito “verde”, come metodo per accumulare l’energia prodotta in eccesso durante i picchi giornalieri di produzione e da scambiare tra gli utenti delle “comunità energetiche”, veri e propri kibbutz in stile israeliano.

La European Net Zero Alliance (ENZA – occorre dire che, in fatto di acronimi, l’Unione europea non è seconda a nessuno!) prevede a regime per il 2050 l’installazione di 500 GW di potenza produttiva di idrogeno verde (elettrolizzatori) che copra il 14 per cento del mix energetico. Sempre secondo le strategie Net Zero, i settori in cui andrà utilizzato l’idrogeno verde saranno quelli cosiddetti “hard to abate” (“duri da abbattere” – no ironia!) rappresentati dall’industria pesante, ad esempio le acciaierie.

Il bilancio energetico

Una volta separato dall’ossigeno nelle celle elettrolitiche, l’idrogeno verde viene poi raccolto e purificato dalle impurità, raggiungendo purezze superiori al 99 per cento. A quel punto, esso può seguire due strade:

  • Compressione ad alta pressione (700 bar) e stoccaggio in bombole;
  • Compressione nel range 70-100 bar ed immissione in appositi gasdotti (detti “idrogenodotti”) per il trasporto a distanza.

Il bilancio energetico sarà quindi funzione del tipo di trasporto scelto.

Le perdite di conversione nel processo elettrolitico si aggirano intorno al 40 per cento, il che vuol dire che, di tutta l’energia impiegata per il processo, solo il 60 per cento verrà riottenuta quando si farà successivamente ricombinare l’idrogeno con l’ossigeno. A queste perdite si sommano quelle per il trattamento a valle della raccolta dalle celle elettrolitiche (purificazione, compressione e stoccaggio) che, a seconda del tipo di impianto di compressione, possono andare dal 20 al 30 per cento, portando quindi il rendimento di conversione globale nel range 42-48 per cento.

Idrogenodotti

Fermo restando il rendimento del processo elettrolitico (60 per cento), diverso è invece il caso in cui si voglia trasportare l’idrogeno in tubazione. Avendo peso molecolare e viscosità minori del gas naturale, tubazioni di pari diametro operanti alla medesima pressione di esercizio permettono il trasporto di una maggiore portata volumetrica dell’idrogeno a parità di perdita di carico lungo la linea. Tuttavia, il minor potere calorifico dell’idrogeno per unità di volume (circa un terzo rispetto al gas naturale) implica che l’energia trasportata risulti, a parità di ogni altra condizione, minore di quella del gas naturale.

Questo effetto è tanto più evidente quanto più bassa è la pressione di trasporto, mentre risulta pressoché ininfluente per pressioni di linea dell’ordine dei 100 bar. La conseguenza è che, a differenza del gas naturale, gli idrogenodotti devono lavorare a pressioni più elevate, nel range 70 – 100 bar. Poiché il limite superiore di esercizio dei metanodotti è 60 bar, ne consegue che essi sono di fatto inutilizzabili – se non a seguito di opportuni retrofit – per il trasporto dell’idrogeno, pena la crescita conseguente delle perdite di carico che renderebbero il trasporto fortemente sconveniente.

Pertanto, l’affermazione secondo cui i metanodotti dal Nord Africa, così come la rete nazionale del metano, possano essere utilizzati in futuro tout court a costo zero per trasportare l’idrogeno è destituita di ogni fondamento tecnico, almeno nella formulazione semplicistica strombazzata ai quattro venti dagli ambientalisti de noantri, inclusi geologi con annessa piccozza e climatologi in cravattino, che farebbero bene a imparare qualche concetto elementare di ingegneria prima di andare in tv a dire fesserie ai telespettatori.

Ma non divaghiamo oltre e torniamo al nostro idrogeno in tubazione. Come avviene anche per il trasporto del gas naturale, per recuperare le perdite di carico è necessario ricomprimere l’idrogeno ogni circa 150 km. Il consumo di ognuna di queste stazioni di ricompressione varia nel range piuttosto ampio 0,5-4,5 per cento della potenza dell’idrogeno trasportato. Ponendoci come al solito nel punto medio, possiamo supporre che tali perdite siano 2,5 per cento ogni 150 km, cioè 0,0167%/km.

La logistica

Partendo dalle considerazioni fatte sulle perdite nelle due modalità di trasporto e trascurando in prima battuta l’energia necessaria per il trasporto delle bombole, è quindi possibile stabilire l’ordine di grandezza della distanza di “break-even energetico” che si ha quando le perdite nelle tubazioni eguagliano quelle della compressione, cioè quando:

0,0167% ∙ L = [20% – 30%]

essendo “L” la distanza in km, da cui deriviamo che “L” vari nel range 1.200-1.800 km. Pertanto, in prima battuta, per distanze minori ai 1.500 km dal luogo di produzione, conviene distribuire l’idrogeno via idrogenodotto, mentre per distanze superiori risulta più conveniente il trasporto a mezzo bombole.

L’auto a idrogeno verde

E torniamo alla famosa automobile dello spettacolo di Beppe Grillo del 1993. Essa utilizza l’idrogeno come combustibile che viene stoccato a 700 bar in bombole situate nella parte inferiore del veicolo per tenere il baricentro basso. Il cuore del sistema è la cosiddetta “cella a combustibile” – o “fuel cell”, per gli amanti dell’inglese – un sistema relativamente complesso che combina in maniera controllata l’idrogeno dalle bombole con l’ossigeno dell’aria in presenza di un catalizzatore, generando così energia elettrica che aziona il motore elettrico di bordo. Gli scarichi dell’automobile sono costituiti da acqua sotto forma di vapore, da cui i famosi suffumigi di Beppe!

Qual è il rendimento complessivo di un’automobile a idrogeno? Abbiamo visto che il rendimento per ottenere idrogeno verde in bombole è del 42-48 per cento. Il rendimento della cella a combustibile varia a sua volta dal 40 al 65 per cento a seconda del tipo di cella utilizzata. Infine, il motore elettrico ha un rendimento medio del 93 per cento. Il rendimento complessivo sarà quindi:

ηtotmin = ηHmin ∙ ηFCmin ∙ ηM = 0,42 ∙ 0,40 ∙ 0,93 = 0,16

ηtotmax = ηHmax ∙ ηFCmax ∙ ηM = 0,48 ∙ 0,65 ∙ 0,93 = 0,29

Il rendimento complessivo varia quindi dal 16 al 29 per cento. In altre parole, di tutta l’energia rinnovabile prodotta, solo il 16-29 per cento di essa verrà convertita in energia meccanica all’asse dell’automobile mentre la rimanente frazione del 71-84 per cento verrà persa in calore lungo i vari passaggi di trasformazione. Si tratta in effetti di un rendimento complessivo così basso da scoraggiarne l’utilizzo su vasta scala o laddove non siano in gioco la mobilità pubblica (“tanto paga Pantalone!”) o le dimostrazioni pubblicitarie. A riprova di questo, oggi gli unici modelli di auto a idrogeno presenti sul mercato mondiale si contano sulle dita di una mano e sono:

  • Citroën ë-Jumpy Hydrogen;
  • Hyundai Nexo;
  • Opel Vivaro-e Hydrogen;
  • Peugeot e-Expert Hydrogen;
  • Toyota Mirai.

I costi sono esorbitanti e si aggirano intorno ai 70-80.000 euro. Le auto a idrogeno circolanti nel mondo a fine 2022 erano circa 15.500, di cui soltanto 13 in Italia.

Ultimo ma non meno importante, a frenare sulla mobilità a idrogeno contribuisce anche il fatto che, in caso di incidenti che compromettano l’integrità della tenuta delle bombole di idrogeno, l’automobile abbia discrete probabilità di trasformarsi in un ordigno esplosivo, dato il carattere fortemente esotermico della combinazione incontrollata dell’idrogeno in esse contenuto con l’ossigeno dell’aria e data la temperatura di autoaccensione (585 °C) non molto dissimile da quella del metano (540 °C) e facilmente raggiungibile a livello locale nel caso di innesco conseguente all’incidente.

Le industrie pesanti

Abbiamo detto che la strategia Net Zero prevede entro il 2050 di riconvertire l’industria pesante (quelli “duri da abbattere”, ricordate?) all’idrogeno verde. Proviamo quindi a fare due conti della serva su cosa sarebbe necessario per riconvertire a idrogeno verde l’acciaieria di Taranto, per esempio.

L’acciaieria di Taranto produce oggi circa 6 milioni di tonnellate di acciaio l’anno (ai tempi d’oro negli anni ’80 ne produceva il doppio). Il fabbisogno di carbon coke in un’acciaieria è di circa 0,4 tonnellate per ogni tonnellata di ghisa prodotta. Pertanto, il fabbisogno annuo sarà: 0,4 x 6.000.000 = 2.400.000 tonnellate. Sapendo che il potere calorifico del carbon coke è di 8,22 kWh/kg, per la sua sostituzione con l’idrogeno verde occorrerebbero ulteriori 2.400.000.000 x 8,22 = 19,728 TWh/anno, arrotondati per difetto a 19 TWh/anno di energia da idrogeno verde.

Supponiamo adesso che l’idrogeno arrivi a Taranto in idrogenodotto dall’Algeria via Transmed riconvertito a idrogeno (il gasdotto che collega l’Algeria all’Italia via Tunisia e che trasporta oggi il metano estratto nel campo di Hassi R’Mel nel deserto algerino: se dobbiamo fantasticare, facciamolo in grande!) coprendo una distanza di circa 1.500 km. Le perdite di rete saranno pari a:

Ltot = 1.500 ∙ 0,0167% = 25% circa.

Il rendimento complessivo sarà quindi quello dell’elettrolisi (60 per cento) moltiplicato per quello di trasporto (75 per cento) cioè 45 per cento. Pertanto, per ottenere 19 TWh/anno di energia dall’idrogeno verde occorrerà produrre energia elettrica rinnovabile per 19 / 0,45 = 42 TWh/anno.

Trattandosi di deserto del Sahara, questa corrisponderebbe all’energia elettrica prodotta in un anno, ad esempio, da 150 km2 di pannelli fotovoltaici al silicio monocristallino (90 milioni di pannelli).

Vera gloria?

Per chiudere questa breve digressione, l’idrogeno verde è senza dubbio il più efficiente tra i vari vettori energetici sul tappeto, soprattutto se consumato in prossimità dei punti di produzione, dove il rendimento complessivo si mantiene sempre al di sopra del 50 per cento e può sfiorare il 60 se ci si mantiene in un raggio di 100 km dal luogo di produzione.

Tuttavia, questo significa comunque sprecare più della metà dell’energia elettrica rinnovabile faticosamente prodotta e aumenta a dismisura le quantità di impianti necessari per poter rispettare gli obiettivi net zero. Sarà vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza!

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