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2024, la fine del sogno reaganiano: l’America spaccata come non mai

Da “E pluribus unum” a “E pluribus plura”. La storia Usa riscritta e reinterpretata su misura delle minoranze e chi si oppone diventa “white trash” (spazzatura bianca)

trump kamala harris voto usa © Henrik5000 tramite Canva.com

Dal 20 al 23 agosto 1984 ebbe luogo a Dallas la convention del Partito Repubblicano (detto: Grand Old Party o GOP) che assicurò la ricandidatura alle presidenziali a Ronald Reagan. Ecco: quella lontana estate vide l’apoteosi dell’America reaganiana. La popolarità del presidente era ripresa dopo la recessione dei primi anni ’80 ed egli divenne il primo presidente in carica, dopo Johnson nel 1964, a candidarsi alle primarie senza una seria opposizione.

Il programma comprendeva anche un discorso di commiato di Barry Goldwater, padre fondatore della Nuova Destra americana, di cui Reagan era l’erede politico. Tutta la convention vibrava di ottimismo e prese visibilità il movimento “Democrats for Reagan” che contribuì a spostare definitivamente la Cotton Belt dalla parte del GOP.

Tutta quella kermesse venne accompagnata dalle note di “God Bless the U.S.A.” del cantante country Lee Greenwood. Il video di quel pezzo musicale rappresentava, forse incidentalmente, la vera essenza dell’America reaganiana: una storia – in tinta agraria – di caduta e di riscatto dove lo Stato, le istituzioni, sono totalmente assenti e solo la bandiera e la fierezza di essere americani sono la forza propulsiva del Paese (And I’m proud to be an American / Where at least I know I’m free). Un duplice messaggio: unità e Stato minimo e limitato… ovvero, l’America!

Con messaggio opposto ecco la narrazione del competitor Walter Mondale: il timore dell’escalation militare e delle sue conseguenze attraverso gli sguardi innocenti di bambini e le suggestive parole della popolarissima canzone “Teach you Children” del supergruppo CSNY. In altri commercial il richiamo alla lotta contro le lobby era chiaro, d’altronde Mondale era stato il vice dell’ultimo presidente della “Grand Society” Jimmy Carter. Però – è importante sottolinearlo – il leit motiv era l’unità del Paese e l’opposizione era verso le politiche, non contro le persone e la loro personale narrazione della storia. Ultimo erede di questa storia politica appare, non senza tristezza ed ironia, lo stanco presidente Biden.

Quarant’anni sono passati, ma ne sembrano trascorsi oltre cento. È certo che si può agevolmente affermare che l’America non è più quell’attore assoluto, sull’arena mondiale, degli anni Ottanta. È evidente che la globalizzazione ha infoltito la sfida dei competitor in campo economico. Altrettanto vero che la Cina – grazie anche alle lontane aperture americane dei tempi di Nixon – sta ingigantendo la sua sfera di influenza nel Terzo Mondo.

Lo spirito nazionale Usa

Ma è altrettanto vero che le risorse economiche, politiche e strategiche degli Stati Uniti sono tali da far sì che per decenni l’America potrebbe ancora identificarsi come “la città sulla collina”. Questo gigante, però, ha – da sempre – dei piedi d’argilla che trovano la loro fragilità proprio nell’origine stessa dell’America e nello stesso senso di appartenenza che fa di un agglomerato di persone, una “nazione”, comunque la si voglia declinare come regime.

Fin dalle sue origini, lo spirito “nazionale” americano, e l’idea di cittadinanza che, nello specifico statunitense, ne consegue non sottendeva determinate condizioni che erano basilari nel continente europeo: lingua, cultura, territorio, in altri termini l’ethnòs. L’idea di nazione e di cittadinanza sottende, e sottendeva, fin dalle origini, una condivisione di valori.

L’antico portato dei Padri Pellegrini che, nel 1620, stipularono un covenant (alleanza, accordo) – de facto un contratto sociale – in cui i firmatari acconsentivano a seguire le regole e i regolamenti della comunità per amore dell’ordine e della sopravvivenza. In pratica la nazione nasceva come un accordo dal profondo contenuto privatistico e utilitaristico.

Autori come Jameson e Palmer, notarono che la stesura delle “costituzioni” americane (1778, 1787) avvenne all’interno di un environment sociale povero di “spirito nazionale”. Si può infatti notare che, nonostante una certa enfasi posta nel termine “our country” all’interno del linguaggio politico americano – nell’arco della bicentenaria storia del Paese – il concetto di “patria” trova scarso credito. Vi è addirittura chi nega che gli Stati Uniti siano mai stati una “patria”, come la si intende in Europa.

Un Paese di immigrati

Michael Walzer (“Che cosa significa essere americani”, 1992), lucido e puntuale come sempre, sottolinea che “gli americani non hanno mai parlato della loro terra in termini di madrepatria”. Quel tipo di lealtà naturale o organica, che a ragione o a torto riconosciamo nelle famiglie, non sembra essere una caratteristica della politica americana. “Si può essere – aggiunge Walzer – un patriota americano senza credere nelle reciproche responsabilità dei cittadini americani – anzi, per alcuni americani, il non crederci è un segno di patriottismo”.

Portando la sua analisi all’estremo il politologo americano arriva a sostenere che “gli Stati Uniti non sono nemmeno una ‘terra natia’ […] Sono un Paese di immigrati i quali, per quanto riconoscenti verso questa nuova casa, ricordano ancora i vecchi Paesi. E i loro figli sanno, anche se solo saltuariamente, che hanno radici altrove”. Così si sono formati gli Sati Uniti, attraverso “folle affamate, che agognano di respirare liberamente”, come è inciso sulla Statua della Libertà.

La riscrittura della storia

Questa è la vulgata “fondatrice”, dalla quale sono, però, estranee altre opposte narrazioni, quelle di chi fu estraneo dall’origine e che, ostentatamente, si sente ancora adesso estraneo al messaggio salvifico sopra citato: le minoranze nere (o di altre etnie) che, in fondo sono le uniche che sbarcarono nel nuovo mondo, non per scelta, ma a bordo delle navi negriere.

La storia americana, viene così, a partire dagli anni sessanta, a poco a poco riletta e reinterpretata dalle origini. Se questo processo potrebbe trovare ostacoli (ormai sempre minori) in Europa, in America avviene con grande semplicità. Se si parte dall’assunto che esiste una peculiarità americana, cioè una differenza basilare con lo sviluppo storico europeo, se l’America è anche – e soprattutto – una creatura “immaginata”, secondo la definizione di Vann Woodward (“Tho Old World’s New World”, 1991) ecco che il gioco è fatto!

A partire dagli anni Novanta è iniziata una rilettura basilare della storia ad esclusivo riconoscimento del valore storico, politico e morale delle minoranze. Ecco che la cesura della storia e la chiave interpretativa diventa il fenomeno (invero minoritario) della schiavitù. Tutta la storia americana si permea di questo elemento a discredito dei ceti bianchi, razzialmente “dominanti” ( anche quando non erano partecipi effettivi della peculiar institution, per dirla con John Calhoun). A corroborare questa lettura vi era la pluridecennale applicazione delle leggi sull’immigrazione di Lyndon Johnson, che ruppe con la tradizione rooseveltiana e kennediana del welfare “spinto” e delle frontiere semichiuse e che trasformò l’America in quella società multietnica che conosciamo.

Bianchi disprezzati e censurati

Anche comprensibile questa istanza di riconoscimento e separatezza da chi non si è mai riconosciuto nel “sogno americano”, cioè le minoranze afro-americane rappresentate da leader radicali come Luois Farrakhan, solleva stupore che spesso questa rilettura trovi sponda nel mondo accademico e politico della borghesia benestante bianca.

È importante ricordare che il 9 settembre 2016 – in piena campagna elettorale – Hillary Clinton chiamò gli elettori repubblicani basket of deplorables (cesto di deplorevoli), specificando che essi erano “racist, sexist, homophobic, xenophobic, Islamophobic”. Quali parole di disprezzo! L’oppositore diventava il white trash (spazzatura bianca).

L’impoverimento della classe operaia bianca, dimenticata dalla amministrazione Obama in doppio modo: 1) come classe lavoratrice (atteggiamento classico della sinistra degli anni duemila); 2) come etnia, non rappresentativa di istanze legittime, provocò reazioni e malesseri di senso opposto.

Proprio in quel 2016 la sociologa Arlie Russell Hochschild nella suo saggio “Strangers in Their Own Land: Anger and Mourning on the American Right” individuò in quella parte di americani che sostennero il Tea Party coloro che sono stati “cacciati via” dalla “storia” e dalla “società” americana. La censura attuata sistematicamente nei campus americani nei confronti della cultura “classica” bianca a favore di ogni studio etnico o proveniente da civiltà ritenute “superiori” in quanto pure e innocenti, appare la cartina al tornasole di questa visione rovesciata delle civiltà.

Se viene sbandierato con orgoglio il motto “Black Lives Matter” ecco che nel 2020 la professoressa dell’Università di Cambridge Priyamvada Gopal dichiara: “I’ll say it again. White Lives Don’t Matter. As white lives”. Questo radicalismo razzista non ha suscitato alcuna reazione presso quel patinato ateneo; in compenso se si cerca su Wikipedia (inglese) l’espressione “White Lives Matter” ecco che appare la lapidaria sentenza: slogan suprematista bianco. La disparità è nelle cose, ormai.

Una difesa tardiva

Operazione di difesa e reazione, anche se credo tardiva ed inutile, fu l’opera dell’attuale candidato vicepresidente repubblicano James D. Vance, “Hillybilly Elegy”, 2016, malamente tradotto – per interessi editoriali – in Elegia Americana (Hillybilly è un termine dispregiativo con cui si indicano le persone che risiedono nelle aree rurali e montuose degli Usa traducibile come “zotico”. Il personaggio fumettistico di Li’l Abner, apparso in Italia anche su “Linus” negli anni settanta, è il classico Hillybilly).

Larry Summers, segretario al Tesoro dell’amministrazione Clinton, definì questa opera “lettura necessaria per chiunque voglia capire l’ascesa di Trump o la disuguaglianza in America”. Un memoir che raccontava la white trash abbandonata nel sud e nel midwest americano, lavoratori dell’industria del ferro lasciati ad arrugginire nella Rust Belt assieme alle fabbriche abbandonate.

Un’America spaccata

Quale risposta ai bisogni di questi zotici? Dignità ed una politica sociale simile a quella rooseveltiana, facile! Ma comunque il riscatto di una parte, non di tutta la nazione! A dar credito a Federico Rampini (“Suicidio occidentale” […], 2022), nel 2020, secondo un sondaggio, meno di un quarto dei democratici erano fieri di essere americani; meno di un terzo di tutti i giovani [democratici o repubblicani] lo erano.

L’America è e sarà, nel futuro, spaccata come non mai, a rischio di una nuova guerra civile. L’America di Reagan poggiava ancora convintamente sul motto nazionale: E pluribus unum. L’America di domani sarà (se sopravvivrà): E pluribus plura! Mai come adesso si può provare nostalgia per la canzone God bless the USA!