Esteri

Il grido di libertà delle donne iraniane ignorato in Occidente

Irene Testa (PR): la lotta nonviolenta contro il regime di Teheran emoziona. Sconcertante silenzio di media e politica, girarsi dall’altra parte vuol dire essere complici

Proteste delle donne in Iran

A distanza di dieci mesi dal barbaro assassinio di Mahsa Amini, in Iran la polizia morale ha cominciato a presidiare di nuovo strade, piazze e luoghi di ritrovo. Con Irene Testa, tesoriera del Partito radicale impegnata nella difesa dei diritti delle donne iraniane, abbiamo voluto parlare delle proteste a Teheran e dell’atroce repressione che colpisce giovani e dissidenti politici nel regime degli ayatollah.

La repressione

LORENZO CIANTI: Il portavoce della polizia iraniana, Said Montazer al Mahdi, ha annunciato il ritorno della polizia morale nelle strade dieci mesi dopo la morte di Mahsa Amini. Le violenze non si sono mai placate, inutile sottolinearlo.

IRENE TESTA: Quanto accaduto non mi meraviglia affatto. Negli scorsi mesi le grandi città iraniane sono state tappezzate di telecamere per individuare le donne che non indossavano il velo e che risultavano scomposte.

La polizia morale non è mai venuta meno. Abbiamo visto ragazzine avvelenate con gas tossici nelle scuole, per quanto il regime di Ali Khamenei abbia negato di essere stato il mandante. La polizia morale ha usato tutti i metodi pur di fermare le proteste e i giovani iraniani che manifestavano.

Gran parte dei ragazzi sono stati incarcerati, soprattutto quelli appartenenti alle fasce più deboli, che non hanno i mezzi per pagare un riscatto. In Iran non esiste una giustizia equa e gli stessi avvocati contano meno di zero. Essendo un Paese molto corrotto, solo chi ha le risorse economiche necessarie può cavarsela. Si sono susseguiti numerosissimi ricatti verso le famiglie dei dimostranti, i quali dovevano giurare di non manifestare più, pena l’esproprio delle terre familiari e la sottrazione di casa, beni, lavoro.

A mio avviso il focolare è acceso, la brace arde ancora ed è viva. I giovani stanno studiando nuove strategie di lotta nonviolenta. I ragazzi di Teheran non hanno sollevato una guerra civile, ma una rivoluzione pacifica: manifestano levandosi il velo, abbracciandosi, baciandosi, facendo ciò che è loro impedito.

Un metodo di lotta che emoziona. Hanno agito così trovandosi di fronte orde di carnefici, misogini e assassini come i mullah e il loro entourage, che si difendevano impiccando i giovani in pubblica piazza e stuprando le ragazzine. Mentre a noi fa orrore solo l’idea che una ragazza venga portata in carcere e violentata, in Iran è una costante.

Le iniziative del Partito radicale

LC: Il Partito radicale ha organizzato 37 manifestazioni nonviolente presso l’Ambasciata della Repubblica d’Iran in Via Nomentana, a Roma. La peculiarità del Pr è da sempre la lotta nonviolenta. In che modo la nonviolenza connota il vostro impegno civile? Puoi fare un resoconto delle manifestazioni?

IT: Già nel 1979, con l’ascesa di Khomeini, il Partito radicale fu l’unico partito italiano a protestare contro il velo. Il Pr si occupa di temi transnazionali da decenni. Tra i suoi connotati statutari comprende sia la nonviolenza, sia la transnazionalità. Era chiaro che, dinanzi alle brutali immagini che ci arrivavano dall’Iran, rimanere inermi non fosse moralmente accettabile.

La nonviolenza è l’arma che io stessa ho utilizzato nelle primissime settimane della rivoluzione quando, tramite i social dei ragazzi, ci giungevano le foto delle impiccagioni. La politica era silente, i media non scrivevano un rigo, né passavano una notizia su quanto stesse accadendo. Ho ricorso allo sciopero della fame con due obiettivi: chiedere al Parlamento di intervenire con una mozione, poi approvata, e fare in modo che i cittadini fossero informati senza reticenze.

Stefania Craxi, presidente della Commissione esteri al Senato, presentò una mozione che impegnava il governo Draghi ad occuparsi dell’Iran. Quello che accade dovrebbe riguardare anche noi, l’Iran non è una nazione lontana come sembra.

Quando appoggiamo i dittatori dobbiamo sempre pensare che un giorno potrebbero ritorcersi contro di noi. Lo abbiamo visto con l’aggressione russa in Ucraina: siamo stati i primi a dire che non si sarebbero dovuti stringere accordi di nessun tipo con Putin. In seguito alle manifestazioni davanti all’ambasciata siamo stati ricevuti alla Farnesina e in Senato.

I Mujahedin del popolo

Due settimane fa è accaduto l’inverosimile: abbiamo sentito parlare di Iran a reti unificate e il Parlamento ha aperto le porte alla cosiddetta Resistenza iraniana, un movimento che non rappresenta affatto i giovani che stanno lottando con la vita in Iran. I Mujahedin del popolo sono stati ricevuti in Parlamento ma costoro, fino al 2012, rientravano nella lista delle organizzazioni terroristiche. I Mujahedin indossano il velo e la polizia morale arresta chiunque non lo porti.

Cosa fa il Parlamento italiano? Accoglie a braccia aperte Maryam Rajavi, capo dei Mujahedin, insieme a una platea di donne interamente velate nella Sala della Regina a Montecitorio. Trovo sconcertante la disinformazione dei media italiani e di molti parlamentari al riguardo.

Qual è il programma dei Mujahedin del popolo? Prevede che vadano a governare per sei mesi, poi si terranno delle elezioni. Ma questo è lo stesso discorso che fece Khomeini quando instaurò il suo regime: è al potere da quarant’anni.

Se il Parlamento vuole dare davvero una mano all’Iran, dovrebbe riflettere su una via alternativa a guida Onu per un periodo provvisorio, fino a condurre Teheran a libere elezioni. Avallare il sostegno dell’Italia ai Mujahedin del popolo è stato un errore micidiale.

Azadi, libertà in Iran”

LC: È stato di recente pubblicato il tuo libro “Azadi, libertà in Iran”, nel quale sono raccolte quindici testimonianze di giovani iraniani che hanno subito la persecuzione del regime. Quali racconti ti hanno commosso in particolare?

IT: Le testimonianze sono a dir poco agghiaccianti. Molti i luoghi nei quali le persone vengono seviziate, dalle carceri alle “case protette”. Il detenuto è condotto all’interno di questi edifici bendato e si ritrova in stanze dove viene picchiato ed è costretto a confessare delitti mai commessi. Gli aguzzini cercano di estorcere informazioni false facendo sentire le urla dalle celle accanto e dicendo ai prigionieri che stanno stuprando la sorella o la madre.

Anche una persona caratterialmente forte è obbligata a cedere. Di fronte ad episodi così raccapriccianti, i giovani sono indotti a credere di essere la causa dell’omicidio di qualsiasi membro della propria famiglia. Vengono perpetrate violenze fisiche e psicologiche inimmaginabili. Ci sono stanze con luci accecanti che fanno stordire; viene consegnato riso bianchissimo per far perdere i sensi; si raccontano bugie per far impazzire i detenuti, inventando di sana pianta la morte di familiari e amici.

I pochi fortunati che riescono ad uscire dal carcere devono pagare un prezzo altissimo: il silenzio e l’obbligo di astenersi da qualsiasi manifestazione pubblica. L’Iran è un Paese di estremi. Da una parte esiste un Iran prospero (ma minoritario), dall’altra sono presenti miseria e sofferenza diffuse.

Storie di repressione

Un professore detenuto in quanto ecologista – cosa proibita in Iran – mi ha raccontato che un giorno era stato informato di essere prossimo alla scarcerazione. In realtà, è stato portato a forza nel sotterraneo del carcere, massacrato di botte e ricondotto in cella.

Un’adolescente mi ha raccontato di dover guardare il fidanzato dall’altro lato della strada perché temeva ritorsioni. Quando sono stati colti mano nella mano, il giovane è stato picchiato ferocemente.

Una giornalista ha riferito la storia della sua famiglia. Il padre era un docente liceale durante il regno di Mohammad Reza Pahlavi. Dopo il 1979 è stato costretto a stravolgere il suo paradigma d’insegnamento, perdendo l’autonomia e la libertà didattica.

Il regime degli ayatollah odia la bellezza. Le ragazze iraniane hanno un fascino straordinario, ma nelle foto dei documenti d’identità diventano irriconoscibili. La religione musulmana mortifica il loro aspetto fisico e nasconde i loro corpi.

Alcune donne hanno descritto la loro esperienza universitaria. All’ingresso degli atenei è situato il gabbiotto della polizia morale, dove vengono consegnate obbligatoriamente le borse e sono sequestrati, sottratti, schiacciati centinaia di rossetti. Delle ragazze hanno persino applicato lo smalto trasparente sotto ai guanti, ma la polizia morale se n’è accorta e ha punito le responsabili.

La discriminazione colpisce anche i giovani omosessuali. Ho intervistato un ragazzo, Hassan, che mi ha spiegato come essere una minoranza sessuale sia inaccettabile in Iran. Si è considerati delle persone malate e si viene condannati a morte per il solo motivo di esistere.

Il regime si pone in due modi nei confronti di queste persone: le perseguita o propone di “guarirle” traumatizzandole con psicofarmaci e terapie di conversione. Hassan ha assunto per tre anni gli psicofarmaci che gli venivano somministrati perché, quando ha fatto il servizio militare, ha reso nota la sua omosessualità. Da allora la sua vita è diventata un inferno.

I pasdaran sono affiliati alla polizia morale e detengono gran parte della ricchezza in Iran. I giovani della comunità iraniana hanno proposto di inserirli tra le organizzazioni terroristiche affinché fossero sottratti i loro beni illegittimi. Ma l’Italia ha indietreggiato troppe volte anche in sede europea, quando si è tentata questa strada.

Conoscere per deliberare

LC: Un altro strumento del Partito radicale è l’assemblea. Si sono svolte innumerevoli assemblee nella storica sede di Via di Torre Argentina. L’attivista Nazanin Eagder è stata eletta consigliere del Partito radicale. Anche Fari Alizadeh e Bahram Farrokhi sono membri del Consiglio generale del Pr. Sembra che il Partito radicale sia l’unica forza politica a rendere vivo il motto einaudiano “conoscere per deliberare”. Come si fa a rendere noto ciò che accade a Teheran per poi deliberare con giudizio?

IT: Come diceva sempre Marco Pannella, le nostre sono battaglie lunghe e impegnative. Non possiamo illuderci che mandare a casa un regime con un assetto capillare come quello iraniano sia un compito facile. Ma questo non ci scoraggia affatto.

Conoscere le proteste giovanili è un presupposto importantissimo. Siamo impegnati in prima linea con le interviste su Radio Radicale, le assemblee e le manifestazioni. A deliberare dovrebbero essere i nostri governanti, ma l’attuale inerzia non fa ben sperare.

L’ipotesi di un Irangate

LC: Il silenzio dell’informazione è assordante. Perché si è ricalcitranti a parlare dell’Iran? Temi la possibilità di un Irangate che coinvolga parte della nostra classe dirigente?

IT: Non so se si possa definire Irangate, ma non escludo che vi siano interessi di natura economica in Iran. Quanto al silenzio dei media, non riesco ancora a capacitarmene. Probabilmente, anche il Vaticano contribuisce a mistificare l’entità delle proteste. Lo stesso Papa, che mai dovrebbe interferire con la sfera politica, ha incontrato i mullah.

Non bisogna dimenticare che l’Iran è provvisto di bombe atomiche e ha minacciato di bloccare lo Stretto di Hormuz, uno snodo nevralgico del commercio internazionale. Ci sono timori che, per alcuni versi, sono comprensibili. Occorre sì prudenza, ma non in misura eccessiva. Girarsi dall’altra parte significa essere complici del regime.

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