Come ho già notato in altri articoli, la visita ufficiale di Nancy Pelosi a Taiwan non è stato solo un gesto simbolico (per quanto rilevante). Si tratta piuttosto dell’inaugurazione di un trend che, se perseguito sino in fondo, può finalmente condurre alla fine dell’isolamento internazionale che i comunisti cinesi hanno imposto all’isola, indipendente de facto, dopo la loro vittoria sui nazionalisti nella guerra civile.
Nonostante la freddezza di Joe Biden e l’attacco subito da Donald Trump, che non le perdona di aver più volte invocato il suo impeachement, la Speaker della Camera Usa ha capito che la politica dei guanti di velluto con la Repubblica Popolare non funziona. Il Partito comunista è sempre pronto a sfruttare le incertezze degli avversari, e lo ha dimostrato più volte anche nel corso degli ultimi anni.
Le visite a Taipei
Si deve notare che, dopo il viaggio di Pelosi, le visite a Taiwan di esponenti politici e governativi occidentali si sono intensificate. Pochi giorni orsono è giunta a Taipei Agnė Vaiciukevičiūtė, viceministro dei trasporti della Lituania. Il piccolo Paese baltico ha assunto posizioni molto coraggiose, aprendo a Vilnius un ufficio taiwanese che ha funzioni commerciali.
Ve ne sono altri sparsi nel mondo, ma quello in Lituania è stato ufficializzato con enfasi, suscitando una furiosa reazione di Pechino che ha sanzionato l’esponente del governo lituano e sospeso i rapporti di cooperazione tra i due Paesi.
Tuttavia, il trend dianzi menzionato continua. In questi giorni ha visitato l’isola anche una delegazione bipartisan del Senato Usa guidata dal senatore democratico Ed Markey, mentre sono attese delegazioni ufficiali pure da Regno Unito, Canada e Giappone.
Non sembra dunque che la prova di forza di Xi Jinping, che ha di fatto bloccato l’isola dopo la partenza di Nancy Pelosi, abbia impressionato più di tanto gli occidentali e i loro alleati, decisi a non farsi intimidire dai diktat di Pechino.
L’accordo commerciale Usa-Taiwan
Sono nel frattempo state avviate trattative ufficiali tra Washington e Taipei per avviare un accordo di libero scambio tra i due Paesi, lo “US-Taiwan Initiative on 21st Century Trade” che dovrebbe ulteriormente rafforzare i già intensi rapporti economici e commerciali bilaterali.
Per governo e abitanti dell’isola si tratta di una grande notizia. Significa, infatti, che l’America non intende abbandonarli e, al contrario, s’impegna a garantire il libero accesso a Taiwan sia via mare sia via cielo, nonostante i blocchi minacciati dall’Esercito popolare di liberazione cinese.
Ma il commercio non basta
È pure ovvio, tuttavia, che la libertà commerciale, anche se incrementata, non basta. E questo resta vero finché gli Stati Uniti rimarranno avviluppati nella cosiddetta “ambiguità strategica” che li porta, da un lato, a difendere (anche militarmente) Taiwan e, dall’altro, li costringe ad accettare lo slogan “una sola Cina” imposto da Pechino all’intera comunità internazionale.
Il dilemma dell’indipendenza
Pur riconoscendo che la “realpolitik” è uno strumento essenziale nelle relazioni tra Stati, è ovvio che Taiwan potrà sentirsi al sicuro solo se la sua indipendenza come nazione sovrana verrà riconosciuta, se non da tutti, almeno da un numero sufficiente di altri Stati.
Tuttavia, considerata la situazione attuale, stringere rapporti diplomatici ufficiali con Taipei significa, automaticamente, romperli con Pechino. O almeno tale è l’opinione diffusa, giacché non esistono prove al riguardo.
Si tratta di un dilemma che gli Usa e i loro alleati dovranno prima o poi affrontare in modo serio, perché Xi Jinping si trova a governare un Paese che ora è in difficoltà dal punto di vista economico (anche se molti italiani non ci credono).
Potrebbe dunque essere tentato dal “colpo di forza” annettendo l’isola, per presentarsi all’imminente congresso del partito come colui che è riuscito dove aveva fallito anche Mao Zedong. Rischia di scatenare il terzo conflitto mondiale, ma sicuramente nel partito nessuno gli negherebbe il tanto agognato terzo mandato.