Esteri

Trent’anni fa il genocidio in Rwanda: 100 giorni di orrori

Dal 7 aprile al 15 luglio 1994 massacrate da 800 mila a oltre un milione di persone. Oggi il rischio di un nuovo conflitto nella regione

Rwanda Tutsi (France24) Rwanda, la scoperta di una nuova fossa comune

Nel 1993 gli abitanti del Rwanda erano 7,9 milioni. Nel 1995 si erano ridotti a 5,6 milioni, i sopravvissuti alla più cruenta e terrificante strage compiuta in Africa nel XX secolo, il genocidio dei Tutsi, di cui quest’anno ricorre il 30° anniversario. Nel 1994, dal 7 aprile al 15 luglio, erano state uccise da 800 mila a oltre un milione di persone: 1.074.017, secondo le stime governative ufficiali, il 93,7 per cento delle quali di etnia Tutsi e le rimanenti di etnia Hutu e Twa.

Il genocidio era stato pianificato e preparato da tempo dagli Hutu che, non paghi di detenere il potere e di essere maggioritari, avevano deciso di sterminare l’etnia minoritaria Tutsi e ridurla a dimensioni irrilevanti come già era successo della terza etnia del Paese, i Twa, pigmei ridotti a meno dell’1 per cento della popolazione e confinati nelle inospitali foreste equatoriali.

L’occasione per scatenare i massacri era stato l’attentato che aveva causato la morte del presidente Hutu Juvénal Habyarimana. Il 6 aprile l’aereo su cui viaggiava insieme al presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira, era stato abbattuto da un missile terra-aria. Ne furono accusati i Tutsi.

100 giorni di orrore

Nei mesi precedenti la leadership Hutu aveva istigato la popolazione contro di loro, soffiando sul fuoco dell’avversione tribale. L’emittente Radio Mille Colline era stata usata per incitare all’odio e al disprezzo degli “scarafaggi”, così venivano chiamati i Tutsi. “Le tombe sono pronte, in attesa di essere riempite” era uno degli appelli ricorrenti dell’emittente. Non sarebbero bastate. Anche assumendo come corretta la stima di circa 800 mila morti, nei 100 giorni successivi all’attentato in media furono uccise almeno sei-sette persone al minuto, uomini, donne e bambini. Mancarono tempo e voglia di dare sepoltura a tutte.

Era stato redatto un elenco dei Tutsi da uccidere per primi. Il massacro iniziò da loro. Il giorno dopo l’attentato furono istituiti dappertutto dei posti di blocco dove gli interahamwe, una milizia paramilitare armata e addestrata dai pianificatori del genocidio, e altri cittadini “volontari” fermavano e identificavano la gente: liberi gli Hutu, trattenuti e uccisi i Tutsi. Proprio come i leader Hutu avevano sperato, al genocidio parteciparono centinaia di migliaia di civili.

L’orrore di crudeltà e ferocia di quei 100 giorni va oltre ogni immaginazione. Neanche i bambini furono mai risparmiati. Si deve a questo il numero relativamente basso di orfani, 95 mila, molti dei quali assistettero all’esecuzione dei famigliari. I minorenni uccisi furono circa 300 mila. Tra 250 mila e mezzo milione di donne furono violentate e lo stupro perpetrato da uomini ammalati di Aids si dice addirittura fosse pianificato, come ulteriore arma di genocidio.

Il modo in cui tutte quelle povere creature morirono aggiunge orrore all’orrore. Si dice che i leader Hutu nei mesi precedenti avessero importato tonnellate di panga, lunghi coltelli simili ai machete, da distribuire alla popolazione al momento giusto. Forse non è vero, ma i panga sono attrezzi domestici e agricoli di uso comune in Rwanda e in tutta l’Africa orientale ed è con i panga e con altri attrezzi da lavoro – mazze, martelli, asce – che sono state uccise centinaia di migliaia di persone.

Fiammiferi e benzina sono serviti a ucciderne tante altre, a decine e centinaia imprigionate in case e persino in chiese date poi alle fiamme. Essere uccisi a colpi di arma da fuoco era una grazia. I giornalisti in seguito raccontarono di persone che pagavano per una pallottola e una morte istantanea per sé e per i famigliari.

I processi

Nel luglio del 1994 il leader Tutsi Paul Kagame con il suo esercito, il Fronte Patriottico Rwandese, mise in rotta l’esercito Hutu e prese il potere. Da allora il Paese è saldamente nelle sue mani. Negli anni successivi più di 120 mila persone sono state arrestate con l’accusa di aver preso parte al genocidio. 93 sono state processate ad Arusha, in Tanzania, da un tribunale speciale istituito dall’Onu, il Tribunale penale internazionale per il Rwanda, che ne ha condannate 61, al costo esorbitante di due miliardi di dollari. Tutte le altre sono state processate da tribunali rwandesi tra mille difficoltà perché anche i giudici e gli avvocati erano stati decimati.

Per anni decine di migliaia di persone in attesa di giudizio sono state rinchiuse in carceri sovraffollate, in condizioni inumane. Molte vi sono morte di stenti e malattie prima di essere processate. Per riuscire a giudicare altre centinaia di migliaia di Hutu che non erano stati arrestati, ma che si riteneva avessero avuto un ruolo nei massacri, nel 2001 sono stati istituiti 12 mila tribunali popolari chiamati Gacaca, sul modello dei consigli tradizionali di villaggio. Erano più rapidi, ma erano affidati a persone impreparate e coinvolte emotivamente, per le quali era difficile essere imparziali. Spesso sono diventati strumenti di vendette personali.

Adesso i rwandesi sono 14 milioni. Più del 60 per cento sono nati dopo il 1994. Tuttavia la memoria del genocidio resta viva tra la popolazione, anche in loro. Non c’è famiglia che non abbia avuto vittime o carnefici tra i propri famigliari. A far sì che nessuno dimentichi contribuisce inoltre la drammatica situazione creatasi nel 1994 nella vicina Repubblica democratica del Congo di cui si risentono tuttora gli effetti.

Il rischio di un nuovo conflitto

Temendo a ragione la vendetta Tutsi, più di due milioni di Hutu nel luglio del 1994 fuggirono dal Rwanda. La maggior parte entrarono in Congo dove, nei pressi di Goma, il capoluogo della provincia del Nord Kivu situato vicino al confine tra i due Stati, l’Onu istituì per loro il più grande complesso di campi profughi del mondo. Ma a rifugiarsi in quei campi, mescolati ai civili, furono anche decine di migliaia di interahamwe e di soldati e politici Hutu.

I campi divennero, sotto gli occhi degli operatori umanitari, quartieri generali di milizie Hutu che hanno continuato a uccidere i Tutsi: ancora per qualche tempo in Rwanda, oltrepassando la vicina frontiera, e per anni in Congo, accanendosi sui congolesi di etnia Tutsi che vivono nell’est del Paese. Privi di protezione da parte del governo, per difendersi i Tutsi congolesi avevano creato una formazione paramilitare, il Congresso nazionale per la difesa del popolo.

Suo erede oggi è tuttora il gruppo armato M23 che infesta le province del Nord e Sud Kivu. Proprio in questi mesi gli M23 stanno cercando di impadronirsi di Goma. A febbraio hanno conquistato Sake, una città a 25 chilometri dal capoluogo. Dall’inizio del 2024 oltre 200 mila persone per sottrarsi alla violenza dei combattenti M23 sono fuggite e hanno trovato rifugio in campi profughi Onu.

Il Congo accusa il Rwanda di finanziare e sostenere militarmente l’M23 affiancandogli persino delle truppe. Il Rwanda nega e replica accusando il Congo di attentare alla sicurezza nazionale e di servirsi di milizie Hutu, le Forze democratiche per la liberazione del Rwanda in cui militano numerosi interahamwe, residui dei profughi del 1994. In aiuto al Congo, Malawi, Tanzania e Sudafrica hanno da poco inviato delle truppe. La regione rischia di nuovo di diventare teatro di un conflitto continentale come durante la Seconda Guerra del Congo, dal 1998 al 2003.

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