Politica

I nostalgici delle ideologie forti sconfitte dalla storia

Augias e Canfora rimpiangono una “minoranza capace e consapevole di fare storia nel senso più alto” e l’idea di partito come “grande educatore collettivo”

Luciano Canfora (La7) Luciano Canfora

Era il dicembre 2023 quando Corrado Augias – in rotta coni vertici Rai – iniziò una collaborazione con La7 proponendo un programma di approfondimento e cultura dal titolo “La Torre di Babele”. In ogni puntata si è visto il conduttore confrontarsi, su di un particolare tema, con un ospite. Così tra gli ospiti riconosciamo volti noti dell’intellighènzia nostrana: Alessandro Barbero, Michele Serra, Ezio Mauro, Maurizio Ferraris, Antonio Scurati, Serena Dandini, Liliana Segre, Aldo Cazzullo, Giancarlo De Cataldo, Enrico Deaglio, Walter Veltroni, Roberto Benigni ed altri.

L’intento della trasmissione è chiaro: la cultura sta a sinistra. Non è contigua al centrosinistra, ma solo alla sinistra. Il resto è ignoranza o – al più – residualità. Lo testimoniano le esperienze di tutti gli ospiti (si escluda, per ovvie ragioni, Liliana Segre). Se i favori politici degli elettori prendono differenti direzioni è perché essi non hanno cultura e non sanno scegliere ciò che si auto-dimostra giusto.

Le cuspidi della trasmissione vennero raggiunte il 29 gennaio e l’11 marzo, quando Augias si intrattenne a conversare con Luciano Canfora prima sulla “Costituzione” e poi sulla “Democrazia”. Le carature intellettuali dell’intervistatore e dell’intervistato hanno fatto sì che il dialogo, in entrambi i casi, sia stato una stupefacente rassegna di colte citazioni, adatte ad un pubblico raffinato per gusti e cultura.

Libertà e uguaglianza

Nonostante ciò, ecco che tra le citazioni, affiora una visione della politica assolutamente fideistica e “partigiana” ed un rimpianto per le utopie infrante. Tutto assolutamente legittimo e comprensibile, se si considera che a parlare sono due ultra ottantenni (Augias si affaccia ai 90 anni), che non possono non fare i conti con il proprio vissuto, oltre che con i propri studi. Che il professore di Bari ricordi la centralità del principio di “uguaglianza” come centrale nella dicotomia democrazia-libertà è cosa ovvia, meno accettabile è l’uso che fa delle citazioni.

Corretto ricordare che per Tocqueville alla base del principio di libertà vi sia l’uguaglianza, ma questo non corrisponderebbe al pensiero dell’aristocratico normanno, se non si ricordasse – cosa che Canfora omette – che qui si parla di eguaglianza di condizioni, un tipo di eguaglianza “immaginaria” che è essenza stessa della democrazia.

Canfora, inoltre, giusto per ascrivere autori al blocco “egualitarista”, dimentica di ricordare i rischi che, comunque, Tocqueville vede in questa precondizione, alla base della democrazia americana, così come l’aveva studiata. Per il francese l’eguaglianza delle condizioni tende a tradursi con il conformismo, la massificazione sociale, poiché la grave patologia della democrazia è quella di non accettare le differenze.

È comprensibile che l’utilizzo del mezzo televisivo comporti, necessariamente, una certa approssimazione dettata dai tempi, ma qui certe omissioni sono assolutamente volute. Similmente Canfora tratta Aristotele in modo molto più superficiale di quando non ne descriva il pensiero su testi. Con uno slancio attoriale viene asserito, in trasmissione, che per Aristotele la democrazia era il governo dei “non possidenti”, anche se essi fossero stati una minoranza della popolazione a scapito di una maggioranza di benestanti.

In modo differente Canfora, nel suo “La democrazia: storia di una ideologia” spiega, correttamente, il perché dell’inclusione dei “teti” nella cittadinanza attiva, anche se rileva che per Aristotele non vi era un rapporto sostanziale tra “democrazia” e “maggioranza”. Nel suo sorprendente capitale di nozioni utili Canfora ama declinare con linguaggio novecentesco i conflitti nell’Atene del IV secolo, come se le categorie marxiane possono essere un eterno passepartout.

Già da queste parole Canfora lascia intendere che la democrazia non necessita, obbligatoriamente, di una competizione tra molteplici attori – tutti rappresentanti delle élites – per decidere la gestione della cosa pubblica, e che la libertà debba essere mitigata dalla giustizia, senza però specificare chi e come determini i paradigmi della giustizia, lasciata in balia del demiurgo di turno. Discorso assai insidioso.

La dittatura della minoranza

Non è un caso che in questa sede il Nostro, con ammirato giubilo di Augias, sostenne – con antiche e recenti evidenze storiche (Trasibulo e Castro)- l’importanza dell’esistenza di una “minoranza capace e consapevole di fare storia nel senso più alto”. Questa affermazione, di per sé già definitiva, viene conclusa con una tombale sentenza verso chi non condivide questa punto di vista: “gli ignoranti tacciano!”. Beh, affermare che si è di fronte all’apologia del “rivoluzionario di professione” è dire poco.

Nonostante la patente sconfitta subita nel Novecento viene riproposto il ruolo guida di questo personaggio che – riprendendo una sintetica definizione di Pellicani – è “dedicato anima e corpo alla demolizione degli ordinamenti esistenti, tutti in qualche misura corrotti dallo spirito borghese e pertanto degni di perire. Un tipo antropologico che, a partire dalla Rivoluzione bolscevica e sino al collasso del sistema sovietico, ha dominato la scena mondiale con la sua straordinaria capacità di attivare poderose passioni e di mobilitare le masse”.

Crisi dell’ideologia forte

Fa sorridere vedere il conduttore e l’intervistato, appartenenti ad oggettive e riconosciute élites al potere, agitare lo stendardo della rivoluzione. Augias stimola il commento dell’interlocutore, che aveva poco prima lamentato la mancanza di “grandi ideali”, ricordando che l’adesione della politica fino a pochi decenni prima, partiva da una adesione ideale a grandi famiglie del pensiero. La risposta è lapidaria: si è venuto a creare “discredito verso la parola ideologia […] come a qualcosa di falso”.

L’autore chiaramente fa riferimento a quegli impianti che vengono ricordati come “ideologie forti”, cioè quelle che interpretano l’agire della storia e creano i paradigmi per l’affermarsi dell’Uomo nuovo, che rifugge la sua natura di “legno storto”, come invece rileva la scuola liberale. Canfora ed Augias si compiacciono di ritenere questa crisi dell’ideologia forte come un risultato degli ultimi decenni, come l’italica realizzazione della mai accettata “Seconda Repubblica”.

Peccato che l’Italia è arrivata ultima a confrontarsi con questa crisi delle ideologie, che già era stata studiata oltre settant’anni fa. Quando Canfora era ancora studente della scuola media inferiore, nel 1953, al di là dell’Oceano Hannah Arendt affermava che “le ideologie-ismi che per la soddisfazione dei loro aderenti possono spiegare ogni cosa e ogni avvenimento facendoli derivare da una singola premessa – sono un fenomeno molto recente e, per parecchi decenni, hanno avuto una parte trascurabile nella vita politica”.

Il successo – e al tempo stesso la debolezza – di qualsiasi ideologia “forte” sta nel fatto che essa: “tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa ‘legge’ dell’esposizione logica della sua ‘idea’. Essa pretende di conoscere i misteri dell’intero processo storico – i segreti del passato, l’intrico del presente, le incertezze del futuro – in virtù della logica inerente alla sua ‘idea’”.

Lungi dall’essere uno stimolo verso un’analisi lucida dei fenomeni, l’ideologia – con buona pace di Canfora ed Augias – è una lente deformante verso il mondo. Per questo, e non per chissà quali cause esterne, esse sono poco a poco fallite. Che poi all’orizzonte si prospettino galassie di emozioni disorganiche che si fanno proposte è un’altra cosa, ma sicuramente una fosca prospettiva per il futuro.

Il grande educatore

Da qui l’auspicio del ritorno in auge del partito politico di respiro novecentesco, come “grande educatore collettivo”; da qui il rimpianto per il Partito d’Azione, che scomparso con le elezioni del 1948 fu una delle più tristi creazioni del pensiero politico italiano.

Difficile vedere in quei due appuntamenti televisivi stimoli per il futuro, ma solo nostalgiche lamentele verso un “piccolo mondo antico” ormai defunto. Assistere al confronto tra l’intervistatore e l’intervistato era un po’ come vedere gli sketch dei due vecchietti mugugnoni del Muppet Show.
Si sente forte il bisogno di voci nuove.

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