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Il giorno in cui l’America riconobbe i diritti dei disabili

Una ricorrenza poco ricordata: il 26 luglio si commemora l’approvazione dell’Americans with Disabilities Act, pietra miliare per i diritti dei disabili

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Quasi ogni giorno ci vengono presentate ricorrenze, date da ricordare, giornate dedicate a prestare particolare attenzione a un determinato evento o fenomeno, tanto che in molti parlano di una vera e propria “inflazione delle giornate di”. Quello che conta maggiormente, però, è che questa attenzione non sia “di maniera”, esibita come una sorta di atto dovuto, di cartellino timbrato facendo bella figura e spendendo poco, ma che sia fonte d’una autentica riflessione su quanto accaduto e su come la realtà attuale sia —o non sia— da questo stata effettivamente trasformata.

L’Americans with Disabilities Act

È con questo ben presente che vi ricordo che il 26 luglio è la data in cui si commemora l’approvazione del cosiddetto Americans with Disabilities Act del 1990. Probabilmente, molti di voi non ne hanno mai sentito parlare, ed è per questo che ritengo sia davvero importante raccontarvene la storia, il contenuto e il significato.

In effetti, si tratta di una delle tappe fondamentali nella creazione di quel sistema di tutele costituzionali dei diritti civili, il cui raggiungimento ha caratterizzato una parte importante della vita politica americana e non solo dell’ultimo secolo. Nello specifico, il suo obiettivo è quello di garantire la reale esistenza di diritti per una fetta della popolazione, che tanto spesso viene nei fatti esclusa dalla società, a varî livelli e spesso con sistematicità: le persone con disabilità.

I disabili erano sempre rimasti esclusi da ogni iniziativa legislativa del genere: di fatto, nel percorso per l’affermazione dei diritti civili, culminato tra gli anni ‘60 ai ’70, era stato reso illegale negli Stati Uniti discriminare qualcuno, sul lavoro o nel privato sulla base di appartenenza etnica o religiosa, del sesso o del credo politico, ma di fatto era ancora possibile —e comune— negare l’ingresso a una struttura ai disabili, rifiutarsi di assumerli, o licenziarli in caso di disabilità acquisita dopo l’assunzione. A lungo del problema non si sono interessati in molti, non solo in America, e non solo per motivi strettamente legati alla politica statunitense.

In realtà, buona parte della mancanza d’interesse nei confronti di una legislazione in favore dei disabili, comune sia all’America di trent’anni fa che all’Italia contemporanea, risiedeva nella convinzione che sia un tema di scarsa rilevanza a livello di risonanza, e quindi di irrilevante valore politico. In pratica, la politica ha tendenzialmente scarso interesse a prendere in considerazione i disabili, perché questi vengono percepiti a livello comune come pochi: detto in parole povere, si tende a pensare che della sorte dei diritti delle persone con disabilità importi alle stesse e alle loro famiglie, e che il resto della popolazione se ne interessi ben poco.

In quest’ottica, eventuali azioni positive in loro favore comporterebbero probabilmente una necessità di agire per categorie che vengono considerate molto più ampie, le quali, non considerando i problemi dei disabili appunto come problemi, si teme potrebbero vivere le iniziative stesse come inutili ingerenze o addirittura prevaricazioni.

Qualche numero

Non credo sia il caso di valutare più di tanto la questione da un punto di vista etico o morale, quanto di affrontarla sotto lo specifico aspetto numerico. Il numero di persone che vivono con una o più disabilità è in realtà molto più alto di quanto venga comunemente percepito: secondo le ultime stime messe a disposizione dall’Onu, nei Paesi occidentali potrebbe arrivare fino al 10 per cento.

Il ciclo dell’inaccessibilità

Ma allora perché questa diffusa convinzione che il problema riguardi una percentuale irrisoria della popolazione? Una buona risposta può essere fornita dalla comprensione del cosiddetto “Inaccessibility Cycle”, o ciclo dell’inaccessibilità: a molti disabili è nei fatti impedito di prendere parte attiva alla società, a causa di innumerevoli ostacoli, che vanno dalle barriere architettoniche alla mancanza di tutele, di ausili per lo studio o il lavoro, fino alla presenza di diffusi atteggiamenti di stigmatizzazione.

La conseguenza è che le persone disabili sono, in effetti, poco presenti in ambienti pubblici: una grande percentuale è costretta a rimanere a casa, mentre i pochi che possono avere effettivamente accesso agli spazi comuni vengono, per l’appunto, visti come un numero infinitesimale.

E se si crede che i disabili siano pochi, se non si è abituati ad aver a che fare con loro nel quotidiano, si tenderà quasi invariabilmente a pensare che non vi sia alcun bisogno di prenderli in considerazione come categoria con delle esigenze e dei diritti, e a vivere i minimi aggiustamenti che si deve “subire” per permetterne una maggiore integrazione come soprusi —dai parcheggi per disabili alle rampe di accesso al lato delle scale, fino alle forme di sostegno economico.

Si tratta chiaramente di un circolo vizioso assai difficile da spezzare, e che spesso costringe i disabili a trascorrere una vita fatta di isolamento, mancanza di opportunità, emarginazione e de-umanizzazione, che vanno ad aggiungersi alla già presente sofferenza.

La perdita economica dell’emarginazione

Ma non è assolutamente mia intenzione gettare la questione su un approccio pietistico: tutti perdono, in conseguenza di questa situazione, non solo i disabili, ma la società nel suo complesso, che vede così mancare l’apporto potenzialmente fondamentale di un gran numero di persone, la cui partecipazione attiva alla comunità potrebbe portare benefici a tutti.

Rimanendo ancorati ai numeri e all’aspetto economico, che è quello di più agevole quantificazione e valutazione, i dati elaborati nel 2018 da un estensivo studio dell’International Labour Organization, agenzia delle Nazioni Unite, parlano di una perdita economica enorme, derivante dalla limitata partecipazione dei disabili dal mondo del lavoro: addirittura il 7 per cento del Pil a livello mondiale.

In pratica, per fornire un esempio concreto, se fosse possibile garantire alle persone con disabilità un accesso alla vita comunitaria e lavorativa paragonabile a quello dei non disabili, il prodotto interno lordo dell’Italia aumenterebbe di quasi 150 miliardi di euro.

Come si arrivò all’ADA

Ed è proprio in risposta a questo status quo assolutamente negativo che si mossero i primi portavoce delle istanze dei disabili, che negli Stati Uniti trovarono un autentico leader in Justin Dart Jr. un imprenditore texano che alla fine degli anni ’60 aveva deciso di dedicarsi interamente al riconoscimento dei diritti dei disabili.

Dart era stato colpito dalla poliomielite a 18 anni, nel 1948, che gli aveva lasciato come conseguenza una paralisi agli arti inferiori: era riuscito a ottenere di frequentare l’Università di Houston, ma al momento di laurearsi in storia e pedagogia gli era stato negato il certificato, sulla base del fatto che “un disabile non può insegnare”.

Amico personale di Ronald Reagan, ebbe con lui un serrato confronto su questo tema nel 1981, confronto da cui il presidente uscì con la decisione di nominarlo vice-direttore del National Council on Disability, agenzia federale indipendente dedicata allo scopo.

Il NCD lavorò con grande impegno negli anni seguenti, che Dart trascorse tra gli uffici di Washington, dove ebbe modo di stringere un rapporto particolarmente saldo col vicepresidente George Bush Sr., e migliaia di piccole e grandi città in giro per l’America, in cui si recò, accompagnato dalla moglie Yoshiko, per verificare personalmente le limitazioni cui erano soggetti i disabili nella vita quotidiana nei diversi contesti socioeconomici.

Nel 1986, il NCD presentò un rapporto ufficiale, in cui veniva descritta in dettaglio la situazione, e veniva avanzata la richiesta di un’azione legislativa volta a garantire per la prima volta una serie di tutele legali chiare, ben definite e soprattutto la cui applicazione venisse garantita dall’autorità federale.

La questione giunse al Congresso nel 1988, anno elettorale in cui perfino quella che per tanti rappresentava una questione semplicemente inesistente assunse un ruolo importante nel dibattito politico nazionale.

Bisogna dire che vi furono fin da subito molti sostenitori, provenienti anche dalla cosiddetta società civile e dal mondo del business e dell’economia—ricordiamo, su tutte l’importante Society for Human Resource Management. Inizialmente molto più forti, tuttavia, furono le voci che si opponevano. Alcune provenivano dal mondo degli affari: ad esempio, la Camera di Commercio Nazionale sostenne che l’impatto economico che sarebbe gravato sulle imprese sarebbe stato enorme, mentre la famosissima linea di autobus Greyhounds minacciò di sospendere semplicemente il servizio verso la maggior parte delle piccole e medie località di provincia, piuttosto che dover affrontare i costi della riconversione degli autobus in modo da poter ospitare sedie a rotelle.

L’opposizione del mondo evangelico

L’opposizione di parte del mondo produttivo fu, tuttavia, la più facile da superare, soprattutto grazie al rinnovato impegno profuso dal neo eletto presidente Bush a partire dai primi giorni della sua amministrazione. L’ostacolo che si rivelò praticamente insormontabile fu invece quello della netta e intransigente opposizione del mondo religioso evangelico.

Il punto centrale intorno cui pressoché tutte le voci si alzarono fu quello dell’ingerenza dello stato nelle questioni interne delle Chiese, che sarebbe andato a ledere la libertà di religione. La potente Association of Christian Schools International, in effetti, si spinse ad ammettere apertamente che gran parte del risentimento nel vedere le proprie scuole designate come “luoghi pubblici” risiedeva principalmente nell’assetto pratico, ossia nell’obbligo di procedere a lavori costosi per rendere le strutture scolastiche accessibili ai disabili: questo era un timore cruciale per praticamente tutte le entità coinvolte, ma quelle religiose avevano un’ottima via di fuga, offerta dal Primo Emendamento.

La National Association of Evangelicals, che riunisce oltre 45.000 Chiese e decine di milioni di americani, portò l’opposizione al livello di una vera battaglia per la salvaguardia della libertà cristiana contro le ingerenze dei governi, e gli attacchi erano tanto più aspri e violenti, quanto le principali figure evangeliche si sentivano in un certo senso tradite da una proposta di legge avanzata da un membro del Partito Repubblicano, quale era Daft, e apertamente appoggiata da un presidente anch’egli Repubblicano.

Una tale durezza da parte di istituzioni religiose potrebbe forse sorprendere, ma non bisogna dimenticare di inserirla nel quadro peculiare americano: la stragrande maggioranza di queste comunità evangeliche e non-denominazionali sono infatti piccole realtà dotate di una limitata disponibilità economica e soprattutto gelosissime di una totale autonomia rispetto a qualsiasi forma di autorità.

L’attività di lobbying della influente comunità evangelica, che ormai riteneva la legge estremamente pericolosa, arrivò quasi a bloccarne completamente il percorso legislativo, tanto che, nella primavera del 1990, sembrava ormai quasi scontato che sarebbe rimasta una semplice proposta.

La manifestazione al Campidoglio

In questo contesto, alcune associazioni di disabili decisero di organizzare una manifestazione che potesse avere un potente impatto visivo e un conseguente alto valore simbolico. La mattina del 12 marzo, centinaia di persone con disabilità, principalmente membri della ADAPT (American Disabled for Accessible Public Transit), un’organizzazione che era stata fondata proprio da un pastore presbiteriano, Wade Blank, si presentarono di fronte al Campidoglio, a Washington.

Alcuni rimasero ai piedi della scalinata, intonando canti e slogan, mentre decine di persone diedero vita a quella che fu immediatamente soprannominata dalla stampa come “Capitol Crawl”: si trascinarono verso l’alto, lentamente, in alcuni casi impiegando l’intera mattinata per coprire la distanza di 100 gradini, mentre una folla sempre più incuriosita —e spesso indignata— si accalcava. Il simbolo di questa protesta divenne la piccola Jennifer Keenan, una bambina di 8 anni affetta da paralisi spinale, che nella famosa foto qui riportata è raffigurata nel momento in cui raggiunge la cima della scalinata e viene abbracciata dalla madre.

Un gesto tanto provocatorio venne immediatamente condannato dagli oppositori della legge, che lo ritennero una totale mancanza di buon gusto che andava a turbare il pubblico decoro, ma in realtà fu estremamente efficace nello smuovere l’opinione pubblica.

Bush prende l’iniziativa

Di fronte al deciso e totale diniego degli evangelici di giungere a qualche concessione, il presidente Bush si vide costretto a prendere personalmente l’iniziativa per evitare che i tempi tecnici rendessero impossibile l’approvazione della legge: convinse il Congresso ad approvare un compromesso, che escludeva qualsiasi istituzione legata ad un’organizzazione religiosa.

Questo fu quanto alla fine approvato il 26 luglio, cinque punti che hanno di fatto stabilito il primo standard a livello mondiale per i diritti delle persone con disabilità: i disabili non possono essere discriminati sul lavoro, il che include l’illegalità di mancata assunzione sulla base della sola disabilità, licenziamento per lo stesso motivo, e dovere per i datori di lavoro che abbiano più di 15 dipendenti di effettuare dei lavori definiti “di portata ragionevole” per permettere il pieno accesso dei dipendenti disabili al luogo di lavoro; i disabili non possono essere discriminati nell’accesso al trasporto pubblico; i disabili hanno diritto ad una piena fruizione dei beni, servizi e locali aperti al pubblico, il che implica un obbligo di costruire tutte le nuove attività nel pieno rispetto dell’accessibilità, nonché di apportare “ragionevoli modifiche” a quelle esistenti; i disabili hanno diritto a usufruire dei mezzi di comunicazione e culturali, il che implica l’obbligo di fornire, ad esempio, audiodescrizioni o sottotitolazioni dei programmi televisivi, o di garantire la presenza di testi in braille nelle biblioteche pubbliche.

Si trattò di una autentica pietra miliare per i diritti dei disabili. Certo, i risultati avrebbero impiegato molto tempo per essere chiaramente apprezzabili, ma ad oggi il 45 per cento dei disabili americani ha un lavoro, un numero fortemente aumentato negli ultimi decenni, e l’atteggiamento complessivo della società si è avviato finalmente a un cambiamento.

Rimane la grande “zona d’ombra” delle istituzioni religiose, che non riguarda solo gli edifici di culto, ma anche le scuole e gli ospedali gestiti da enti legati a una Chiesa: in questi casi, non si applica alcuna tutela, come confermato dalla Corte Suprema in numerose sentenze.

Una svolta non solo per gli Usa

Ad ogni modo, l’ADA è stato un momento di svolta per la società americana, e ha costituito la base di ogni successiva legislazione organica sul tema, non solo negli Stati Uniti. Per quanto riguarda il resto del mondo, infatti, ha ispirato la Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità, approvata nel 2006 ed entrata in vigore due anni dopo, e lo European Accessibility Act del 2019, entrato in vigore appena un mese fa, che obbliga tutti i Paesi membri della Ue ad adeguarsi a degli standard di inclusione nella vita attiva della società.

Il tram dell’inclusività che non include i disabili

Ed è così che mi avvio alla conclusione di questo pezzo, che spero possa avervi aiutato a conoscere una parte non secondaria della storia americana e soprattutto della società umana, che troppo spesso si tende a trascurare, anche in un periodo così spiccatamente attento a ricercare una senz’altro giusta inclusività, che però —salvo rare eccezioni— non sembra includere, per l’appunto, i disabili.

Un esempio estremamente recente ci dimostra quanto questo sia vero anche qui in Italia: poche settimane fa, il Comune di Milano ha deciso di realizzare un tram speciale, definito anche “il tram dell’inclusività”, per celebrare il mese del Pride, all’interno di una campagna lanciata dal sindaco Beppe Sala e denominata, mi si permetta, in modo ironico, dato quanto è poi successo, “E tu che ne sai?”.

Ecco, su questo tram inclusivo era impossibile salire per persone con ridotta mobilità, cosa che evidentemente era sfuggita agli organizzatori, ma non a numerosi attivisti e semplici cittadini.

Non mi resta quindi che augurarmi che date come questa possano servire in qualche modo a far crescere la consapevolezza, e che sempre più, quando si parlerà di inclusività, lo si farà in modo davvero “inclusivo”, senza lasciare fuori una fetta della popolazione che abbiamo visto essere importante anche numericamente ed economicamente —oltre che umanamente.