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Attenzione alla identity politics, che cancella meriti (e demeriti) dei politici e ci rinchiude in tribù

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“Sì, sono fidanzata. Ho avuto diverse relazioni in passato. Ho amato molti uomini, ho amato molte donne: in questo momento sto con una ragazza e sono felice, finché mi sopporta”.

Con queste parole Elly Schlein, neo vicepresidente della Regione Emilia Romagna, ha fatto outing scatenando l’attenzione di buona parte dei media. Dopo tali dichiarazioni abbiamo infatti assistito ad una esaltazione generalizzata della Schlein per il suo orientamento sessuale. Un aspetto della vita privata, che non dovrebbe in alcun modo influenzare il giudizio politico, è diventato prioritario tanto da mettere in secondo piano le sue idee e i suoi progetti politici. Su cui sarebbe interessante concentrarsi, considerate l’opposizione alla Tav e una concezione radicale dell’ecologismo che non sembra facilmente conciliabile con la crescita necessaria ad un Paese ormai in stagnazione.

Il caso mediatico Schlein è emblematico e rappresenta un’importante manifestazione di quella che nel mondo anglosassone viene definita come identity politics. Una concezione di politica in cui a scontrarsi non sono più le idee, i valori e le visioni del mondo ma le semplici e nude identità. In questa logica non contano più le qualità dei politici e i loro posizionamenti ma solo l’orientamento sessuale, il colore della pelle, la religione, gli stili di vita e così via. E quindi, nel caso della vicepresidente dell’Emilia Romagna, essere bisessuale rappresenta una virtù in sé da celebrare e da riconoscere quasi fosse un merito politico.

Quella dell’identity politics è una svolta notevole che rovescia il canone con cui fino a pochi anni fa si guardava all’uomo politico, che doveva essere dotato di capacità e abilità amministrative, oltre che di esperienza e di onestà. A prescindere da qualsiasi caratteristica identitaria. Con la celebrazione mediatica di questi giorni è andato in scena il ribaltamento di tale idea di politica, soppiantata da quella identitaria. Di cui, però, non sono stati esposti con chiarezza i rischi, che non possono essere taciuti. A partire dalla balcanizzazione del dibattito, che diventa un conflitto per gruppi distinti che si affrontano in base alla propria appartenenza, impedendo un dialogo tra persone dalle identità diverse. Del resto, se si portano alle estreme conseguenze le basi teoriche dell’identity politics, identità diverse non possono confrontarsi pacificamente ma devono necessariamente scontrarsi perché, ad esempio, un maschio bianco non potrebbe rappresentare e interpretare i bisogni di una donna di colore e viceversa.

Un conflitto enorme, dal momento che deve essere ampliato a tutte le identità in contrasto. La guerra per bande sembra dunque una logica conseguenza di un sistema simile. Il pericolo più grande, oltre a quello di un giudizio politico che nulla ha a che fare con la politica, è quello della segmentazione della società che innesca una serie di fratture impossibili da ricomporre. Un rischio da tenere ben in mente quando si guarda al panorama italiano, che da sempre ci ha abituato a divisioni molto profonde. Che ancora oggi non sono state sanate. Prima di spaccare ancora il Paese, forse, bisognerebbe riflettere.

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