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Barr e Pompeo non del tutto soddisfatti dei loro incontri, mentre al Copasir arriva lo SpyGate (con tre anni di ritardo)

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No, non ci siamo ancora. L’Attorney General William Barr sarebbe rientrato negli Stati Uniti, dopo gli incontri avuti la scorsa settimana con i vertici dei servizi di intelligence italiani, non del tutto soddisfatto del livello di collaborazione riscontrato. La sua visita a Roma sarebbe potuta restare riservata, come quella di Ferragosto, di cui ha parlato Politico solo in questi giorni, e come le diverse visite nel nostro Paese del procuratore Durham dalla scorsa primavera in poi. Invece, ne è stata data notizia venerdì 27 da Alex Mallin, il giornalista che segue per la Abc il Dipartimento di Giustizia, commentando “non è chiaro perché il viaggio sia stato reso noto solo ora”, e confermata implicitamente da una portavoce dello stesso DOJ. Far emergere pubblicamente i contatti in corso, dunque, forse per costringere le autorità italiane a tenere fede al loro impegno di piena collaborazione: non potete più nascondere il vostro ruolo nello “SpyGate”.

Perché due visite in così poco tempo? Nella prima, il 15 agosto, Barr avrebbe incontrato solo il capo del Dis Gennaro Vecchione. Prima di quella data, dunque, il presidente Trump deve aver chiesto al premier Conte di collaborare con il suo procuratore generale. E potrebbe spiegarsi così quel tweet così caloroso del presidente Usa poche ore dopo la conclusione del G7 di Biarritz, a fine agosto, dove evidentemente “l’amico Giuseppi” deve aver confermato la disponibilità a collaborare. La settimana scorsa l’incontro allargato con i direttori di Aise e Aisi, Luciano Carta e Mario Parente, molto più focalizzato nel merito: la figura di Mifsud, cosa sanno i nostri servizi di lui e dei suoi incontri con Papadopoulos, insomma il ruolo dell’Italia – dei governi italiani di allora, Renzi e Gentiloni – nelle origini dello SpyGate.

Anche il segretario di Stato Mike Pompeo, tuttora in Italia, non è rimasto del tutto soddisfatto dei suoi incontri istituzionali, soprattutto di quello con il ministro degli affari esteri Luigi Di Maio. Dietro la cordialità e il rinnovo della centralità dell’Italia nell’Alleanza Atlantica, resta un atteggiamento ancora ambiguo del governo italiano, restano troppe incognite su questioni considerate dirimenti per l’amministrazione Usa: Cina, 5G, Iran. E certo la questione dei dazi Usa autorizzati dal WTO non ha aiutato. Non è nei confronti di Washington che Roma deve tutelare il suo export, ma difendendo in Europa gli interessi italiani, oggi minacciati dalla difesa dei sussidi illegali Ue alla franco-tedesca Airbus.

Almeno quattro rilevanti dettagli, intanto, sono emersi sulla visita di Barr della scorsa settimana da un articolo molto accurato di Barbie Latza Nadeau per The Daily Beast.

1) Prima di tutto, troviamo la conferma, come riportato da Atlantico ieri, che l’incontro con gli agenti di alto grado dell’intelligence italiana è avvenuto a Palazzo Margherita, la sede dell’ambasciata Usa a Roma, e non nella sede dei nostri servizi come riportato ieri da alcuni giornali. D’altra parte, un corteo di auto blindate scortate in pieno centro, da Via Veneto a Piazza Dante, non sarebbe passato inosservato.

2) Il suo arrivo ha colto di sorpresa gli stessi funzionari dell’ambasciata, a cui ha fatto due richieste: una “conference room dove potesse essere certo che nessuno ascoltasse” la conversazione con i vertici dei servizi italiani e una “sedia in più” per il suo “braccio destro” Durham.

3) “Documenti del Ministero della giustizia italiano mostrano che Mifsud aveva richiesto la protezione della polizia in Italia dopo essere scomparso dalla Link University, dove lavorava, e nel farlo, aveva fornito una deposizione registrata per spiegare perché alcune persone avrebbero potuto fargli del male”.

4) “Una fonte del Ministero della giustizia italiano, parlando a condizione di anonimato, ha riferito che Barr e Durham hanno ascoltato il nastro”. E “una seconda fonte del governo italiano ha confermato al Daily Beast che a Barr e Durham sono state mostrate altre prove che gli italiani avevano su Mifsud”. Fonti che avvalorano la nostra ipotesi che all’incontro possa essere intervenuto un rappresentante di Via Arenula.

Inoltre, l’articolo conferma anche, come ben sa chi ha seguito il nostro Speciale nei mesi scorsi, che entrambi gli istituti per cui lavorava Mifsud – la Link Campus di Roma e il London Center of International Law Practice (LCILP) – hanno stretti legami con il mondo diplomatico e le agenzie di intelligence occidentali (Dipartimento di Stato, CIA, FBI, MI6, servizi e polizia di stato italiani). Mifsud, che in un’intervista a Repubblica si era definito progressista e clintoniano, ha partecipato, in piena inchiesta sul Russiagate, a una conferenza a Washington organizzata dal Dipartimento di Stato e, come riportato da Chris Blackburn, ad una a Riad con gli ex vertici CIA e MI6.

Se la deposizione audio di cui parla il Daily Beast è la stessa di cui ha riferito John Solomon su The Hill lo scorso 23 luglio (e di cui abbiamo ampiamente parlato negli stessi giorni su Atlantico), si capisce perché Barr possa essere rimasto deluso. Secondo Solomon, infatti, il procuratore Durham l’avrebbe già ottenuta dall’avvocato di Mifsud, Stephan Roh, e sarebbe stata persino acquisita dalla Commissione Giustizia del Senato presieduta da Lindsey Graham (anch’egli in visita in Italia nell’aprile scorso). O per lo meno, erano già a conoscenza dei punti salienti. Mifsud, come ha raccontato l’avvocato Roh a The Hill, è “un collaboratore di lunga data dell’intelligence occidentale”, non russa, e gli fu precisamente richiesto dai suoi contatti alla Link University e al LCILP di incontrare Papadopoulos a Roma il 14 marzo 2016. L’idea di presentare il giovane consigliere di Trump ai russi, non arrivò da Papadopoulos o dalla Russia, ma sempre dai quei contatti della Link e del LCILP (da Scotti, o dal “caro amico” Pittella?). Pochi giorni dopo l’incontro di marzo a Roma, Mifsud ha ricevuto istruzioni dai suoi superiori della Link di “mettere in contatto Papadopoulos con i russi”, incluso il direttore di un think tank, Ivan Timofeev, e una donna che gli fu chiesto di presentare a Papadopoulos come nipote di Putin. Mifsud sapeva che la donna non era la nipote del presidente russo, ma una studentessa frequentata sia alla Link che al LCILP, e ha pensato che fosse in corso un tentativo per capire se Papadopoulos fosse un “agente provocatore” alla ricerca di contatti stranieri. È evidente, concludeva Roh parlando con Solomon, che “non fu solo un’operazione di sorveglianza, ma una più sofisticata operazione di intelligence”, nella quale Mifsud si è trovato coinvolto.

Dunque, le domande a cui probabilmente Barr e Durham si aspettano una risposta dalle autorità italiane sono: chi e perché ha voluto che Mifsud conducesse questa operazione su un collaboratore della Campagna Trump? Gli è stato chiesto da ambienti governativi e politici italiani, magari vicini alla Campagna Clinton, o dai nostri servizi. E, in quest’ultimo caso, il governo di allora (siamo nella primavera del 2016) ne era a conoscenza? Mifsud è scomparso nel novembre 2017, da chi è stato aiutato a nascondersi? Di nuovo: dai nostri servizi? Perché nessuno ne ha denunciato la scomparsa e la Procura di Roma non ha indagato? E perché, una volta emersa la centralità di Mifsud nell’inchiesta del procuratore Mueller sul Russiagate, e una volta aperte dall’amministrazione Trump le indagini per comprenderne le origini, i governi italiani Gentiloni e Conte I hanno fatto finta di non saperne nulla?

Hanno bisogno di risposte, anche perché nel frattempo, a Washington, l’obiettivo dei Democratici con il Kievgate, piuttosto che difendere Biden o arrivare davvero all’impeachment del presidente, sembra quello di screditare proprio la legittimità delle indagini di Barr e Durham sulle origini dello “SpyGate”, che mostrerebbero la collusione tra l’amministrazione Obama, la Campagna Clinton e governi stranieri amici per cercare di incastrare Trump. Dunque, hanno bisogno di fare passi avanti subito che dimostrino la loro fondatezza. Ieri, intanto, è emerso che il whistleblower dalla cui denuncia sono partiti il Kievgate e la richiesta di impeachment si è “coordinato” con lo staff del presidente della Commissione Intelligence della Camera, il Democratico Adam Schiff, alcuni giorni prima di inoltrare la denuncia all’Ispettore generale della Intelligence Community, violando così la legge che per evidenti motivi prevede che le denunce arrivino all’ufficio dell’ispettore prima che siano divulgate all’esterno e ai membri del Congresso, pena il venir meno della prevista protezione. E sempre ieri, il senatore Graham ha scritto ai primi ministri di Australia, Italia e Regno Unito per esortarli a continuare a collaborare con l’AG Barr per indagare sulle origini del Russiagate e sull’estensione dell’influenza straniera nelle presidenziali del 2016.

La notizia della visita di Barr in Italia ha finalmente portato lo SpyGate, che su Atlantico seguiamo da oltre un anno, all’attenzione dei media e della politica italiani. Una patata bollente tra le mani del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, dal momento che una piena collaborazione con le autorità americane potrebbe significare esporre le componenti della sua attuale maggioranza: le indagini potrebbero infatti far emergere la vicinanza di Mifsud a esponenti politici Pd ferventi ammiratori di Hillary Clinton, come Pittella, il ruolo del nostri servizi sotto i governi Renzi e Gentiloni, nonché quello della Link Campus e i suoi rapporti con lo stesso mondo dell’intelligence e con il Movimento 5 Stelle. D’altra parte, anche lo stesso Conte, che ha tenuto la delega ai servizi da premier del precedente governo, dovrà chiarire perché non ha dato disposizione di fornire informazioni su Mifsud dal giugno del 2018 fino a quando non gli è stato esplicitamente richiesto.

Se ne interesserà finalmente il Copasir, il Comitato di controllo sui servizi, ma con tre anni di ritardo. Nei mesi di novembre e dicembre 2016, infatti, Giulio Occhionero e Maurizio Mazzella, coinvolti nel caso EyePyramid, avevano ritenuto di contattare il Copasir di allora, nella persona del vicepresidente, il senatore Giuseppe Esposito, per denunciare gli attacchi informatici ai server di Occhionero situati su territorio americano, in particolare il tentativo di prenderne il controllo da parte degli agenti della Polizia Postale durante una perquisizione del 5 ottobre. Atti che ai loro occhi costituivano una palese violazione del territorio Usa e, quindi, una minaccia per la sicurezza nazionale e le nostre relazioni con gli Stati Uniti. I loro tentativi di informare il Copasir finirono pochi giorni dopo, con l’arresto dei fratelli Occhionero il 9 gennaio 2017.

Di ieri la notizia che all’interno del Copasir è stata già avanzata la richiesta di convocare il premier Conte per chiarimenti sulla visita di Barr a Roma. Però sarebbe fuorviante se, come sembra di capire dalle indiscrezioni di stampa, il focus di questa audizione dovesse limitarsi alla “legittimità” dei contatti autorizzati da Palazzo Chigi tra Barr e i vertici della nostra intelligence. Il premier e i vertici dei nostri servizi dovrebbero infatti essere chiamati a esporre al Copasir tutto ciò che sanno del coinvolgimento italiano nelle origini del Russiagate, in pratica a rispondere alle stesse domande cui cerca risposte l’amministrazione Trump, e a spiegare perché il Parlamento tramite i suoi organi di garanzia non fosse stato messo al corrente prima che arrivasse Barr in Italia. Il problema, però, è che ad oggi il Copasir non può convocare nessuno e nemmeno riunirsi: il presidente Lorenzo Guerini, infatti, è stato nominato ministro della difesa e il suo partito, il Pd, non ha ancora espresso un sostituito all’interno del Comitato, che dunque non è nella pienezza delle sue funzioni. C’è da augurarsi che non sia una tattica dilatoria per impedire al Comitato di mettere finalmente l’ItalyGate all’ordine del giorno dei suoi lavori.

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