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Breve storia della Protezione civile e delle troppe manomissioni della politica

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In occasione di emergenze nazionali, quelle che riguardano trasversalmente tutti gli italiani, senza fare distinzioni di parte politica e d’opinione, le risposte devono essere altrettanto super partes. A questo compito, che consiste nel regolare nei dettagli la struttura di difesa civile, che noi abbiamo preferito definire protezione civile, deve provvedere una specifica normativa di legge, necessariamente unica su tutto il territorio nazionale. Nel nostro Paese, la prima legislazione specifica di protezione civile risale a dicembre 1970. Presidente del Consiglio era Emilio Colombo e ministro dell’interno Franco Restivo. Fino a quell’anno, infatti, il concetto di protezione civile era sconosciuto e molte erano le sovrapposizioni di competenze tra quelle specifiche di enti e strutture militari ed assistenziali civili. Soltanto a partire dal 1971 si cominciò a fare chiarezza, proprio applicando la legge 1970 n. 996, su alcuni concetti importanti e decisivi, quali quello di calamità naturale o catastrofe. L’art. 1 della citata 996/70 recita, infatti, che con tali termini si debba intendere “l’insorgere di situazioni che comportino grave danno o pericolo di grave danno all’incolumità delle persone e ai beni e che per loro natura o estensione debbano essere fronteggiate con interventi tecnici straordinari”. Il coordinamento dei soccorsi era affidato unicamente al Ministero dell’interno (prima di allora competenza del Lavori pubblici) ed allo stesso Ministero dell’interno venne affidato il compito d’impartire le direttive in materia. Si sottolinea il fatto che, all’epoca, Vigili del Fuoco e Polizia erano ancora corpi militari dello Stato, ed ambedue dipendenti direttamente ed unicamente dal Viminale. Alla luce di tale normativa, largamente ispirata alle recenti tragedie delle alluvioni di Firenze (1966) e Genova (1970), venne prevista la prima forma di volontariato, il cui addestramento fu affidato ai comandi provinciali dei Vigili del Fuoco, di fatto, soltanto a quelli capoluogo di Regione. Era un’impostazione tipicamente “pompieristica” e proprio per questa sua questa caratteristica funzionava bene, perché allora, come oggi, nessuna struttura di soccorso statale ha una formazione e dotazione tecnica polivalente e di pronto impiego quale quella dei Vigili del Fuoco. La politica non c’entrava nulla, non si sapeva nemmeno cosa fosse una onlus o una ong, i volontari erano, sostanzialmente, una forza ausiliaria dei Vigili del Fuoco e la formazione tecnica fu di assoluto livello, anche grazie alla volontà di quasi tutti i comandanti provinciali del corpo nazionale, che credettero fermamente nell’utilità dei primi nuclei di volontariato di protezione civile.

Ma la vera “prova del fuoco” arrivò il 6 maggio del 1976, in occasione del tragico terremoto del Friuli, che causò circa mille vittime. Fu l’allora sottosegretario dell’interno, Giuseppe Zamberletti, ad essere incaricato dal Governo Andreotti II di ricoprire il ruolo di “commissario del Governo incaricato del coordinamento dei soccorsi”, figura istituita dalla legge 996/70. Proprio in tale occasione, fu Zamberletti ad ottenere dal governo i primi stanziamenti economici a favore del volontariato di protezione civile, definitivamente assurta agli onori della cronaca dopo il terremoto del 23 novembre 1980 (3.000 morti in totale tra le varie scosse) che colpì la Campania e la Basilicata. Lo stesso Giuseppe Zamberletti fu il primo ministro per il Coordinamento della Protezione Civile (1981-1992) e, a buon diritto, lo si può indicare come il padre del nostro sistema di protezione civile.

Tale sistema, tuttavia, ha subito una serie eccessiva di manipolazioni e modifiche, non sempre necessarie o produttive, che, via via, ne hanno frammentato e moltiplicato i gangli decisionali tra struttura centrale, ovviamente a Roma, e Regioni, Province e Comuni, in un percorso che non sempre si è rivelato virtuoso, essendosi dimostrato, al contrario, causa di criticità, ritardi operativi, incomprensioni che non possono che danneggiare un settore che dovrebbe aver nell’operatività immediata il suo punto di forza. Troppo lungo, talvolta contorto, e troppo ricco di fermate e ri-partenze il cammino del volontariato di protezione civile, per essere affrontato in queste righe con la necessaria completezza. Ma, in estrema sintesi, possiamo certamente affermare che, come in molte cose italiane, la politica ha avuto un peso enorme anche laddove si sarebbe dovuto preservarne il carattere meramente operativo. Ancora oggi, a distanza di cinquant’anni esatti dai primi “ruolini del volontariato protezione civile” presso il Ministero dell’interno, le idee della popolazione su natura, compiti ed autonomia delle tantissime realtà locali di volontariato si sono vieppiù confuse, invece di chiarirsi.

Il dibattito tra gli addetti ai lavori è stato aspro e contraddittorio, e nemmeno l’istituzione del Dipartimento della Protezione civile presso la Presidenza del Consiglio dei ministri nel 1992 ha potuto sgombrare definitivamente il campo da perplessità ed incertezze sul ruolo reale del volontariato. Si sente spesso dire in televisione: “Sul luogo del disastro, i Vigili del Fuoco, i Carabinieri e gli uomini della Protezione civile” o frasi consimili. Già. “Gli uomini” e raramente i “volontari” come sarebbe più corretto indicarli. Perché, con buona pace dei funzionari romani e regionali, il volontariato (non retribuito) è la componente essenziale ed indispensabile perché l’intero nostro sistema di difesa civile funzioni. Niente a che vedere con la FEMA statunitense, composta prevalentemente da professionisti retribuiti o con la Bundesanstalt Technisches Hilfswerk (Agenzia federale soccorso tecnico, THW) tedesca, nella quale operano circa ottantamila volontari (oltre ad un migliaio di professionisti) all’interno della quale è possibile svolgere il servizio militare obbligatorio.

Il nostro vero problema, tuttavia, è l’addestramento dei volontari, che dovrebbe formare soccorritori che siano in grado di affrontare efficacemente e senza troppi rischi per loro stessi, una enorme categoria di rischi specifici ( dai terremoti alle alluvioni, dalle frane ai crolli, dagli incidenti nucleari alle epidemie) che viene loro impartito con modalità non sempre efficaci, oppure incomplete e, talvolta, persino raffazzonate. Con tutto il rispetto e la gratitudine nei confronti di chi presti gratuitamente (anzi, non infrequentemente, mettendoci del proprio) la propria opera per la pubblica incolumità, non si può tacere delle troppe attività che, in modo del tutto scorretto, vengono demandate ai volontari da parte di enti pubblici (principalmente Comuni) che si avvalgono di loro per disciplinare i parcheggi e la viabilità durante fiere e manifestazioni varie, oppure per sopperire senza aggravi di spesa alle carenze del personale tecnico del Comune. La pratica, per quanto scorrettissima e diseducativa, è talmente diffusa da ingenerare nella popolazione il dubbio che “quelli della Protezione civile” si occupino prevalentemente di allestire banchetti con la distribuzione di frittelle o di deviare il traffico se si è verificata una frana o perché si sta svolgendo una corsa ciclistica. Questo accade, e non ci si nasconda dietro un dito. Anche laddove le dotazioni tecniche concesse ai gruppi di volontariato si stiano dimostrando sempre più cospicue (fantascienza, rispetto ai tempi di Zamberletti) accade che alla domanda degli stessi volontari di essere formati sempre più professionalmente, la risposta è pressoché rimandata al futuro se non disattesa.

So di dire adesso qualcosa che non m’attirerà simpatie da parte di alcuni dirigenti nazionali, ma ho potuto personalmente constatare che uno dei problemi sul tavolo, e mai risolto, è quello di una certa diffidenza e gelosia da parte di personale professionista nei confronti del volontario, laddove il volontario (che troppo spesso vediamo, appunto, dietro al banchetto delle sagre di paese) viene visto come uno che non sa fare un granché, ma svolge funzioni riservate ai Corpi statali. Niente di nuovo, intendiamoci, anzi, tipicamente italiano. Altro macigno che incombe sull’operatività dei (tanti sulla carta, pochi in termini di volontari effettivamente disponibili h24) gruppi di volontariato di protezione civile è quello della sottovalutazione dell’impegno reale che l’adesione ad uno di tali gruppi comporti. Un gruppo operativo di protezione civile comporta, al contrario, un impegno di molte, molte ore al mese, per tutto l’anno, anche quando gli altri vanno in ferie e durante le festività. La maggior parte di queste ore dovrebbe essere dedicata all’addestramento e all’apprendimento di nuove tecniche operative, all’esame di sempre nuove e magari improvvise criticità per la pubblica incolumità (il coronavirus n’è un esempio eclatante) nonché alla prevenzione, senza la quale non si può parlare di proteggere alcunché. Impegno gravoso, troppo pesante per la maggior parte dei volontari, se non efficientemente incentivati e supportati, e magari, almeno in parte, risarciti per il tempo che dedicano alla causa comune. La buona volontà non basta e non potrà mai bastare. La forza numerica del volontariato è tuttavia preminente rispetto agli effettivi dei Corpi di soccorso nazionali, ma non è sufficiente.

Sarebbe, quindi, il momento giusto per rimettere mano alla normativa, semplificandola, razionalizzando le risorse con una maggior specializzazione dei tanti gruppi di volontari, ed accentrando il più possibile le decisioni. In questa materia se sono troppi a dare disposizioni e se le stesse sono persino di difficile interpretazione, si fanno solo guai. Rileggere oggi come funzionava la struttura (e funzionava, posso assicurarlo) qualche decennio addietro, potrebbe essere assai utile, magari attribuendo nuovamente ampi poteri in materia alle prefetture (ammesso che non si tolgano pure quelle) ed eliminando enormi differenze regionali in materia di soccorso pubblico. Le Regioni sono state, negli ultimi decenni, avide di accaparrarsi sempre più funzioni operative in materia di protezione civile e, sostanzialmente, l’attuale sistema è di competenza regionale, benché il Dipartimento nazionale non abbia rinunziato ai suoi privilegi e ciò spesso genera discrasie e rimpalli di responsabilità che non aiutano a bene operare, accadendo persino che si assista (esattamente come in questi giorni) a vere e proprie contrapposizioni tra il dettato nazionale e a sua applicazione regionale, con inevitabili ricadute in termini di uniformità di gestione di una crisi nazionale e di non poche proteste.

In linea di massima, quanto più le linee operative urgenti siano univoche e standardizzate, tanto più ne guadagneremo in termini di efficienza e sicurezza. Ma il potere, anche quello che dovrebbe essere un onere più che un onore, è sempre assai desiderato e pure un bel motivo di campagna elettorale (da noi, permanente), per cui prevale persino il protagonismo personale rispetto all’adeguarsi a precise disposizioni nazionali, che per essere nazionali ed autoritarie, dovrebbero essere complete nella casistica, aggiornate ai tempi che cambiano a velocità informatica, efficaci ugualmente da nord a sud. Il che, non sempre accade.

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