Non pago di avervi parlato, e pure recentemente, di aerei, oggi vi parlo di automobili. Immaginate di avere un guasto al motore della vostra auto, uno di quelli che si manifestano ad intermittenza, che vi fermano la macchina, che non si riesce a capire dove diavolo siano annidati sotto al cofano. Andate dal meccanico, quello che conoscete da anni, che vi dice di riportare l’auto il giorno dopo e lasciarla per approfondire le cause del problema, ma voi avete fretta e andate presso l’officina ufficiale di quella marca e vi dicono, prima ancora di aver aperto il cofano, che probabilmente bisogna cambiare quel pezzo e quell’altro, basando la diagnosi su misteriose statistiche ufficiali della casa madre. Abbiamo tutti fretta ed il nostro tempo vale oro, o almeno così varrà il vostro, perché, ahimè, il mio vale pochissimo, e quindi decidiamo di affidarci all’officina autorizzata, quella silenziosa e dei camici bianchi immacolati, con sala d’attesa abbellita da piante monumentali e profumo diffuso. Quando, giorni dopo, ritiriamo l’auto, senza avere il coraggio di chiedere al sussiegoso capo-officina cosa abbia fatto alla macchina, paghiamo e ce ne andiamo, incrociando le dita e sperando di aver risolto, seppure a caro prezzo, il problema. Il guaio, però, puntualmente si ripresenta, amplificato e resosi ancor più misterioso. Per puro scrupolo, ma anche per dimostrare a noi stessi che i professoroni della concessionaria non sempre valgono quanto si fanno pagare, facciamo un passo dal nostro vecchio, non immacolato e dialettale meccanico di sempre, che ci osserva entrare in officina con un lieve ghigno, perché intuisce che, nel frattempo, abbiamo portato l’auto alla concessionaria. Avvicinandosi, si pulisce le mani sulla tuta già extra-sporca, ci fa cenno di aprire il cofano, gettando, con traiettoria perfetta, il mozzicone della sigaretta nel bidone del “misto-di-tutto-un-pò” mentre noi, un po’ vergognandocene, raccontiamo che abbiamo buttato via soldi e tempo e che il difetto persiste. Il bravo meccanico, quello al quale si da del “tu”, che tutti chiamano solo per nome e di cui ignoriamo persino il cognome, grida al ragazzo d’officina, scarmigliato e unticcio pure lui, di portargli la chiave del 14 e il cacciavite a croce grande. Pochi minuti dopo, il vecchio meccanico emette la diagnosi: crede di aver capito cosa possa essere e proverà a risolvere in economia, se gli lasceremo l’auto fino al pomeriggio. Al nostro ritorno in officina, il meccanico è ancora seduto, con la porta aperta ed una gamba giù, al posto di guida della nostra auto e sta facendo delle sgassate che sembrano staccare la marmitta. Passa uno straccio, unto come la sua tuta, sul volante, senza essersi minimamente premurato di mettere i copri sedili bianchi griffati sul sedile di guida come fanno in concessionaria e ci dice laconicamente: “A posto… dammi venti euro”. Cosa ha fatto? Ha pazientemente smontato, disassemblato e ripulito un pezzetto meccanico che manco ci sarebbe venuto in mente, per poi rimetterlo assieme e ricollocarlo al suo posto. Risolto. Vi è mai capitato? Penso proprio di sì, come a me.
Analizzando la parabola automobilistica nelle sue fasi essenziali, saltano alla mente alcuni elementi applicabili, con un po’ di fantasia, alla nostra società, oltre che alla nostra politica. Innanzitutto, varrebbe la pena di chiedersi se la scelta di sostituire ciò che non funziona con pezzi nuovi sia sempre la metodologia più efficace. In nome del principio, tutto da dimostrare, che “il nuovo funziona meglio del vecchio”, sempre più spesso si operano interventi sociali che non analizzano minimamente le criticità ed i malfunzionamenti di organi dello stato, provvedimenti di legge e strutture pubbliche che presentino problemi, semplicemente sostituendo con pezzi e metodi del tutto nuovi, talvolta senza nemmeno averli sperimentati prima. È ormai la regola: si definisce assiomaticamente che tutto ciò che stravolge il pre-esistente stato delle cose sia migliore e più efficace. Cambiare pezzi della struttura sociale a casaccio è ormai il sistema prevalente, più che analizzare con competente pazienza ciò che non funziona più a dovere per almeno provare a rimetterlo in efficienza. Un edificio pubblico che presenta criticità si abbatte o si lascia persino al totale abbandono. Nell’attesa dell’immancabile nuova struttura faraonica che dovrà sostituire quella abbandonata o chiusa, si costringe la popolazione a privarsi del servizio che veniva offerto prima, senza nemmeno considerare praticabili quelle riparazioni e ristrutturazioni che avrebbero risolto le criticità, risparmiando magari qualche milione di euro dei contribuenti.
Allo stesso modo, in questa Italia che assomiglia sempre più ad un immenso laboratorio dove troppo si sperimenta ed assai poco si opera con reale esperienza professionale, vediamo ministri che abusano ampiamente dell’aggettivo “nuovo” inteso come base metodologica del loro operato, abusando altresì del sostantivo “riforma” come rimedio universale, come se tutto ciò che abbiamo faticosamente costruito finora fossero i pezzi che il meccanico in camice bianco sostituisce a prescindere, per semplificarsi la vita e per fare budget con quelli nuovi. Vuoi fare il ministro di qualsivoglia dicastero? Ne sai nulla? Sei un perfetto ignorante della materia? Non importa, t’insegno io ( che ne so quanto te) come fare: cambia tutto radicalmente, spazza via il “vecchio” (che, come tale, incarna in sé ogni male), ricostruisci il sistema intero con pezzi nuovi, che funzioneranno certamente meglio di quelli precedenti e perché avrai l’alibi di aver messo tutto nuovo. Questo il sistema, questa la smania di rinnovare, riformare strutturalmente ed organicamente ogni struttura pubblica, questo l’andazzo odierno in cui, verificato un problema, non si cerca di risolverlo riparando i guasti e sostituendo solo i pezzi che manifestamente non funzionino più. E Dio non voglia che nella programmazione degli interventi sociali si accolga il principio dell’obsolescenza programmata che impera nell’elettronica consumer, per cui ogni nuova struttura statale debba durare pochi anni prima di venir forzatamente essere sostituita con una nuova, perché sarebbe la dissoluzione totale del principio stesso di Stato, che, piaccia o meno, deve essere solido come la roccia e fatto per durare.
È ora di smetterla con sconsiderati interventi radicali ed “innovativi” che ci costringano all’interminabile fase di sperimentazione dell’ennesima riforma strutturale. Basta! Basta con questo tutto buttare all’aria per affidarsi al “nuovo” ad ogni costo, un “nuovo” che ci viene presentato come salvifico soltanto perché non sono capaci a riparare e modificare ciò che realmente non vada più bene, non buttando via, ma preservando scrupolosamente ciò che funzioni ancora benissimo. Ce lo chiede l’Europa? Se non “facciamo le riforme” non scuciranno un euro? Vogliamo addirittura piegare il capo, oltre che le ginocchia, al ricatto? Ma le facciano loro, le riforme, prima fra tutte quella di mettersi in testa che non siamo un popolo di schiavi sempre disposti a cambiare le nostre regole, le nostre strutture, il nostro sistema di vita e, men che mai, a comando! Piuttosto, un piccolo premio al bravo meccanico dalla tuta leopardata, quello che ci risolve il problema al giusto prezzo e senza cambiare l’auto, perché non darlo? Perché in questo Paese di rampanti innovatori e riformisti, di gente che ogni giorno che passa butta alle ortiche secoli di civiltà sociale e giuridica (forse troppo occupati a metterci i trojan nei telefonini per tracciarci come pacchi) l’unico desiderio di chi ci governa è quello di cambiarci la vita, di stravolgere la nostra esistenza perché hanno la monomania di ricostruire l’Italia dalle fondamenta in pochi mesi, senza che ve ne sia la menoma necessità? Datemi voi, se volete, la risposta. Da parte mia vi posso assicurare che le mie abitudini, le mie idee, i miei principi non li cambieranno, non piegherò il capo né m’inginocchierò per alcuna causa Che nemmeno ci provino a chiederlo.