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Come usciremo dalla pandemia? Attesa dei soldi dall’Ue, deriva antiparlamentare e magistratura politicizzata: un mix esplosivo

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C’è un gran parlare di come il Paese uscirà dalla pandemia, facendo gli scongiuri perché non ve ne sia una ripresa nella stagione autunnale. Siamo cambiati in meglio, come sostengono i molti buonisti, oppure torneremo ad essere quelli di prima, sempre in bilico fra il bene e il male? La storia, che pur ne ha conosciuto di grandi tragedie, ci insegna che dopo i te deum e le processioni di ringraziamento per la fine delle pestilenze, con tanto di petti battuti e di buoni propositi, gli intenti e i comportamenti sono tornati ad essere gli stessi, dato, poi, che nel continuo passaggio di generazioni, le lezioni passate sfumano lentamente ma inesorabilmente. Il che, a dire il vero, non guasta, perché portarsi dietro tutto il passato, facendosene come una colpa, è fatica troppo pesante perché non si abbia la tentazione di spogliarsene. Insomma, una sana smemoratezza è la condizione prima di una attiva sopravvivenza.

Quello che è stato battezzato come il diritto all’oblio vale per il singolo, ma anche per una intera collettività, perché altrimenti si sarebbe condannati a camminare sempre con lo sguardo rivolto alle spalle, correndo il rischio di scivolare nella prima buca si apra davanti. Cosa questa ben poco compresa da chi si ostina a credere che sia sufficiente insistere ossessivamente su scenari, anche mostruosi, del passato per mantenerli vividi ben oltre le vite dei sopravvissuti. È un mondo che si è così accelerato, che due generazioni successive non hanno niente in comune: padri e figli non si conoscono più, non coltivano gli stessi interessi, non parlano gli stessi linguaggi, se pur la crisi post-epidemica li costringerà a stare insieme, come separati in casa, anche se non più per prevenzione rispetto al virus, ma per mancanza di lavoro e di reddito.

Se la gente cambierà, sarà solo in ragione della crisi economica e sociale, incubata dalla epidemia, rendendola non più altruista o solidarista che dir si voglia, ma più chiusa in difesa, disposta a disputare a suo favore qualsiasi provvidenza pubblica, con la paura di arrivare per ultima, quando l’enorme disponibilità di risorse, date in sicuro arrivo dall’Europa, sarà disponibile. L’attesa è grande, alimentata quotidianamente dal nostro presidente del Consiglio, che a torto è stato preso in giro per aver battezzato Stati Generali le sue consultazioni, perché è vero che Luigi XVI vi perse la testa, ma il botto finale della rivoluzione fu l’ascesa all’impero di Napoleone. Se l’attesa è grande, grande potrebbe essere la delusione, con l’esplosione di una rabbia sociale, che essendo frutto di tante particolarità insoddisfatte, diventerebbe difficilmente governabile in assenza di un progetto comune, già in fase di concreta realizzazione.

Non è che non vi sia tutto un fiorire di programmi, che si accumulano e sovrappongono, avendo in comune la diagnosi dei mali cronici del nostro Paese, che all’orecchio di una persona d’età suona tanto scontata quanto stucchevole, ma non la terapia; ma anche laddove questa è comune, manca qualsiasi ricetta relativa alla cura. È il dettaglio esecutivo quello che tradisce un progetto, sia in gioco un ponte o un intervento, pubblico o privato; ma è proprio il dettaglio che è difficile mettere a punto, perché incide sulla carne viva degli interessi contrapposti, sì che proprio qui finisce il compito del tecnico e comincia quello del politico.  

Può destare qualche sorpresa che – in assenza di una visione chiara e partecipata se non attraverso una scenografia che, data anche la scelta della location, sembra un po’ da operetta – la voce narrante del presidente del Consiglio prospetti un roseo futuro decennale, pur avendo le consultazioni  politiche comunque alle porte: se le montagne di euro comunitarie arriveranno a 2021 avanzato, nel 2023 ci saranno comunque le elezioni, per quanto le si voglia tirare in lungo. Ma questo evidenzia una netta carenza nel riprendere in mano la problematica istituzionale, a cominciare dalla riduzione del numero dei parlamentari, di certo licenziata dal prossimo referendum costituzionale; nonché dalla redazione della legge elettorale, che, a seconda della contingente convenienza, oscilla fra una proposta proporzionale e una maggioritaria.

La riduzione del numero dei parlamentari, secondo l’ispirazione coltivata dai 5 Stelle, approdati al governo con tutto il loro originario carico protestatario, si iscrive a piene lettere in un antiparlamentarismo divenuto il segno caratterizzante del secondo Ministero Conte, con l’insperato ausilio del Covid-19. Non occorre far niente di più di un sintetico elenco: l’utilizzo di decreti legge convertiti con la fiducia, l’utilizzo à gogo dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri, sottratti al controllo del Parlamento e del presidente della Repubblica, la conversione delle comunicazioni alle Camere in semplice informative, per impedire qualsiasi votazione, che, a proposito del Mes, avrebbe messo a serio rischio la maggioranza. Il vuoto conseguente, come succede in ogni deriva antiparlamentare – con conseguente emarginazione dell’opposizione, qui per di più impedita dalla epidemia dal ricorrere a manifestazioni pubbliche – è stato riempito da una figura artificiosamente carismatica, cui va riconosciuta l’assoluta abilità di spostare le decisioni su comitati molteplici, di cui sarebbe stata solo la fedele esecutrice, per finire implicitamente per lucrarne il merito, attraverso una ossessionante presenza mediatica, degna di un autocrate bon ton. Il sigillo su questo antiparlamentarismo che, bon gré mal gré, ha trovato un tollerante protettore nel presidente della Repubblica – che, da ultimo, ha dato l’impressione di benedire gli stessi Stati Generali, sollecitando il governo alla concretezza, proprio alla vigilia della loro inaugurazione – potrebbe essere dato dall’elezione del suo successore da parte di questo Parlamento, perché ciò significherebbe ipotecare la futura maggioranza alternativa che eventualmente uscisse dalle urne nel 2023.  

Non è solo questa l’eredità lasciata dalla legislatura in itinere, perché capita spesso che una maggioranza metta a frutto una tecnica per emarginare l’opposizione, che poi sarà utilizzata da quest’ultima, una volta divenuta essa stessa maggioranza, con la possibilità di farsi forte della prassi precedente. C’è dell’altro, che ha già cominciato a funzionare a danno di chi l’aveva propugnato, cioè la riduzione dell’atto politico, non sindacabile dal magistrato penale, a un decreto legge o una delibera del Consiglio dei ministri, declassando tutto il resto ad atto amministrativo, rispetto al quale la Camera competente non potrebbe certo negare l’autorizzazione, all’insegna della regola aurea, per cui “non ci si difende dai processi, ma nei processi”.

Solo che adesso è Conte a dover rispondere di una omissione passibile di rilevanza penale, quella di non aver proceduto alla istituzione di una zona rossa in due comuni del Bergamasco. Naturalmente l’informazione progressista, ravvisando una evidente somiglianza con i sequestri imputati a Salvini, reo di aver fatto tutto da solo, ha cominciato a prendersela con la Regione Lombardia, che non avrebbe proceduto di propria iniziativa, al pari di altre regioni, come se una zona rossa potesse essere gestita senza la benedizione del governo, il solo a disporre della forza pubblica necessaria per presidiarne gli accessi. Una volta che Conte, da avvocato esperto – capendo di non poter negare l’evidenza di una mobilitazione dell’esercito fatta rientrare solo all’ultimo minuto – se n’è assunto la piena responsabilità, l’armata dell’informazione progressista ha cominciato a battere sulla situazione di emergenza, sulla discrezionalità della decisione, sull’assenza di ricadute epidemiologiche comprovabili e via dicendo.

Non ha ritrovato la passata fortuna la regola aurea del difendersi nei processi, anche perché la supposta incontaminata purezza della magistratura penale è ormai platealmente smentita dalle copiose intercettazioni del boss dei boss delle procure, Palamara, il quale non solo si è lasciato scappare di dover onorare la fiducia della sua associazione, facendo la guerra a Berlusconi; ma, in uno spiraglio di repressa sincerità, si è spinto a dichiarare che Salvini aveva ragione, ma doveva comunque essere stoppato. Ecco la duplice eredità, una marginalizzazione del Parlamento e una esposizione della classe di governo alla incursione di una magistratura politicizzata. Bene, finché questa maggioranza dura in sella, all’insegna dei famosi versi di Lorenzo il Magnifico, “chi vuol essere lieto, sia, del doman non c’è certezza”.

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