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Comunicazione trita e demenziale: i nostri leader politici dovrebbero imparare da Boris Johnson

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“The milk man won the elections”. Che, messo in bella e un po’ parafrasato per ingentilirlo, suonerebbe tipo “il garzone del lattaio ha vinto le elezioni”. E così sembrerebbe, anzi è.

Per tracciare a posteriori una sommaria ma esemplificativa analisi del contenuto comunicativo della campagna elettorale terminata il 12 dicembre scorso con il trionfo di Boris Johnson e della sua Brexit Strategy, avremmo dovuto leggere i giornali e guardare le tv inglesi di quei giorni. Ebbene, ero lì e l’ho fatto. E credo che raccontarlo potrebbe aiutare tutti i politici nostrani, che sguazzano ormai in una pozza di comunicazione fangosa e ogni giorno più trita e banale, a trovare nuova linfa mediatica per “le bestie”, i pesci azzurri e le donne-uomo dell’anno.

La foto del primo ministro che scarica le cassette di latte è l’emblema di quello che i politici e i politicanti nostrani non sanno proprio fare: comunicare nel modo giusto alla gente giusta, non a tutta la gente indistintamente, ma solo a quella che serve allo scopo, con buona pace di tutti quelli che il voto te lo danno per simpatia o te lo negano per antipatia. E, diciamolo, Boris simpatico non è. È arrogante, è un istrione, dice quello che pensa come lo pensa, ma prima di dirlo alla stampa ci pensa parecchio. Non ha esitato a nascondersi in un frigo, sì, un frigo, per sfuggire ad una giornalista petulante, e presumibilmente sgradita e di opposta fazione, per poi uscirne con delle cassette di latte, creando così il “fridgegate” che ha inondato la stampa britannica. Una cosa che di per sé è geniale per quanto è semplice e scontata, perché rende perfettamente l’idea che con il nemico non si parla, se vuoi far passare il tuo messaggio.

Che poi, stringi stringi, se volessimo fare un parallelo con la tristezza nostrana, è quello che non a caso all’inizio del neo giacobinismo italiano ha provato a fare anche Grillo non mandando i suoi soldatini in tv, ma l’ha fatto male, e soprattutto doveva farlo per forza, perché mandare dei digiuni di tutto al buffet degli squali sarebbe stata una mattanza. Anche se a ben guardare, per come stanno messi ora, lo è stata lo stesso, proprio perché hanno sbagliato e stanno sbagliando tutto e non solo loro.

Qui nel vecchio e ormai sfondato stivale, prima furono i tortellini e i tiramisù, i capretti e i cinghiali, e le pastasciutte di Salvini a innovare la modalità di coinvolgimento dell’elettore, o dell’ipotetico elettore, nella scalata alla creazione e diffusione del consenso. Il contraltare sono state, e ancora sono, solamente le repliche indignate di una sinistra antica, vecchia in tutto e incartata nella sua funerea e acida seriosità, miste ad altri annunci trionfalistici quanto ridicoli di annientamento della povertà basati sulla propaganda pura. Oggi, in attesa che emerga una classe politica che possa essere degna di questo nome, si dovrebbe forse andare alla ricerca di slogan e messaggi che siano meno triviali e più reali, e un po’ meno “cialtroni”.

E non parliamo della nonnina d’Italia che ti bacia e ti regala il rosario, del “viva il capitano” e “abbasso il capitone” ma di ipotizzare, o almeno tentare di farlo, una comunicazione politica più rispondente alle esigenze dei tessuti produttivi del Paese, che sono stati ormai digeriti nell’interesse a sostenere questo o quello schieramento dai fan sfegatati, dai supporters, spesso anche senza tutte le rotelle a posto, che hanno trasformato i politici – e persino il Papa – in rock star e icone pop, in replicanti di post impazziti.

Il seguito di taluni leader ormai è rappresentato solo da simpatizzanti, militanti di partito e gente semplice, a volte anche troppo, che dalla politica vera è lontana anni luce ma vuole ancora parteciparvi e inonda il web di post in serie s con tanto di banner condivisi all’infinito e perlopiù in modo acefalo. E questo a scapito di chi qualcosa da dire alla politica ce l’avrebbe, ma non lo fa perché nessuno ci parla, perché la comunicazione con tutta una fetta di gente è a senso unico.

La tendenza insomma, fino ad ora, il “trend” come dicono i tuttologi, quelli che si improvvisano massmediologi e i sondaggisti, è stata far diventare il frontman di questo o quello schieramento una specie di influencer per decerebrati che ogni tanto, tra una foto del cane, del figlio e del panino, butta nel discorso qualcosa di serio e programmatico, con l’impressione che lo faccia anche un po’ a casaccio, diciamolo.

Francamente un po’ pochino a fronte delle migliaia di imprese e milioni di partite Iva che chiudono – tre milioni negli ultimi tre anni. Un leader politico non è una rock star, un influencer, una modella o un brand. È un politico, nelle cui mani si affidano milioni di persone, intere generazioni dipendono dal suo buono o cattivo operato, non è un ragazzotto o una ragazzotta qualsiasi. Il giovane libero professionista ridotto alla soglia della povertà non lo convinci a votarti e a non emigrare, lui, il padre e il nonno, con un gelatino al caffè nell’ora di massima visibilità segnalata dagli insights.

Perché è vero che non siamo in clima elettorale, ma l’imprevista caduta di questo governo delle merendine e delle bibite è auspicata da più parti e nessuno esclude un Renzi salvatore della patria alla prima occasione utile, o anche utilitaristica, vista la novella eternità della prescrizione e l’alba del giustizialismo infinito promosso e cavalcato da chi ancora non si capacita di come è arrivato dove è arrivato. E nemmeno noi, ma prevenire è meglio che curare, diceva quello.

In sintesi: perché Boris ha vinto le elezioni? Perché in ogni singola occasione non si perdeva in bambocciate o in critiche puerili sugli avversari, non se li filava proprio, come se proprio non esistessero. Ogni contenuto condiviso con i media e con i social media era un fatto, qualcosa da realizzare, non la carezzina alla fidanzatina sulla neve, non l’albero di Natale della bambina, non la banalità al potere che chiede di arrivare o di tornare al potere. Est modus in rebus.

Da uomo di stato parlava, da anni, ben prima del giorno del voto a dir il vero, di cose pragmatiche in termini realizzabili e concreti, di rimedi e soluzioni a situazioni che impattano sulla vita giornaliera delle persone, di come spendere 9,2 miliardi in efficientamento energetico per case e scuole, di costruire sei nuovi ospedali a Londra. Dichiarava apertamente di voler mettere più soldi nelle tasche degli inglesi tagliando l’Iva e aumentando e ancora i salari minimi, anche rispetto al piano dell’anno precedente che già aveva alzato il National Living Wage, di sostegno alle imprese nazionali, di seria regolamentazione dell’immigrazione e di fine della sudditanza all’Unione europea.

Mentre i Labour, dal mondo delle fatine svolazzanti e degli immigrati santi e santificati, ospiti in testate compiacenti e con interviste inginocchiate quando non prone e tweet autoreferenziali, sognavano di piantare 2 miliardi di alberi entro il 2040 e raggiungere le emissioni zero entro trent’anni. E, contemporaneamente, proponevano di alzare le tasse per il 5 per cento dei più ricchi, con quella solita ossessione per la condivisione di tutto e soprattuto della ricchezza guadagnata dagli altri, la nazionalizzazione di acqua, ferrovie, poste ed energia come nel comunismo più fallimentare della seconda metà del secolo scorso.

Sì, del secolo scorso, avete letto e capito bene. E qui la china intrapresa sembrerebbe la stessa: i sogni sono belli ma non sfamano. Non sono solo programmi, sono visioni del mondo diverse.

Boris Johnson ha vinto perché nell’era in cui chiunque vomita qualsiasi cosa nel web e fuori, ha ridotto le chiacchiere a zero, anche adesso che il risultato l’ha ottenuto. Quindi, cari leader politici e media strategists, se volete vincere – o rivincere – le elezioni, fatevi e fateci un favore: anche senza recitare l’incipit dell’Iliade in greco antico come lui, dentro e fuori dai social prendete esempio da Boris.

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