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“Covid più severo con i bambini”? Falso. Obblighi e pass anti-scientifici, costosi e divisivi

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Nostro piccolo fact-checking, dati alla mano, sulle affermazioni di Guido Rasi. Nuovi studi: “I dati recenti indicano che il contributo dei vaccinati alla circolazione del virus è in crescita”. “Gli obblighi vaccinali non si basano sulla migliore scienza, sono enormemente costosi e terribilmente divisivi, una cura peggiore della malattia”

“Stanno vedendo crescere nei reparti forme di Covid severo nei bambini”. Questa l’affermazione di Guido Rasi, ex Ema oggi consulente scientifico del commissario Figliuolo, a In Mezz’Ora, il talk del dopo-pranzo domenicale di Raitre (video). La Stampa ieri ci ha fatto il titolo di apertura: “Covid più severo con i bambini”. Peccato che l’affermazione non sembra essere supportata dai dati presenti nel rapporto dell’ISS diffuso due giorni prima, venerdì 3 dicembre, l’ultimo disponibile. Ci permettiamo, nel nostro piccolo, una breve parentesi di fact-checking.

Il dottor Rasi parte lanciando un’accusa: “Ci aspettiamo un avvio cauto per la campagna vaccinale sui bambini da 5 a 11 anni, perché chi doveva stare zitto non lo ha fatto, chi ha parlato senza avere ancora i dati, o chi ha commentato i numeri senza avere bene l’esperienza di quali siano i numeri giusti per definire un rapporto beneficio-rischio, in questo caso”. Di questi ultimi, dunque, secondo Rasi sarebbe la colpa della cautela dei genitori nel vaccinare i propri figli di età compresa tra 5 e 11 anni.

Rasi afferma che il vaccino è sicuro per i bambini, ma è per lo meno singolare che lo sostenga non basandosi sui numeri dei trial su cui Pfizer ha chiesto e ottenuto l’approvazione sia dalla FDA Usa che dall’Ema europea e dall’Aifa. Numero che d’altra parte, ricordiamo, la stessa Pfizer ha definito “troppo piccolo per rilevare qualsiasi potenziale rischio di miocardite associato alla vaccinazione”. A dimostrazione della sicurezza del vaccino, secondo Rasi, i 4 milioni di bambini americani già vaccinati, nei quali non si registra alcun segnale di allarme importante. Anzi, aggiunge, “molti meno effetti collaterali rispetto alla popolazione tra 11 e 18 anni”.

Su questa affermazione due osservazioni. Primo, sembra un po’ prematura, visto che la vaccinazione dei bambini di 5-11 anni è iniziata negli Usa da poche settimane, l’8 novembre, quindi quei 4 milioni di bambini hanno ricevuto quasi tutti solo la prima dose. E com’è noto, gli effetti avversi più gravi del vaccino Pfizer si concentrano maggiormente a qualche settimana dalla seconda dose.

Secondo, il vaccino è sicuro, ci sono pochi dubbi su questo, gli eventi avversi importanti sono molto rari. Ed è verosimile che nella fascia 5-11 anni saranno ancora meno di quelli registrati nella fascia 12-19. Se non altro, perché la dose è stata ridotta ad un terzo. Il che evidenzia la irresponsabilità di aver somministrato la stessa dose degli adulti ai ragazzi di 12-19 anni, fascia di età in cui si è registrato un numero non trascurabile di miocariditi e pericarditi.

Il problema è nel rapporto rischi-benefici, che abbiamo già affrontato in precedenti articoli quindi non ci torneremo. Ma reiteriamo la domanda: ammesso che il vaccino sia sicuro e i rischi minimi, perché i bambini di 5-11 anni dovrebbero correre sia pure il minimo rischio, ed esporsi ad una incertezza sugli effetti di lungo termine, quando i dati mostrano che per loro il rischio China virus è dello zero virgola zero?

E infatti, a sostegno della necessità di vaccinare i bambini, Rasi ospite di In Mezz’Ora ha enfatizzato i rischi da China virus, affermando che i medici “stanno vedendo crescere nei reparti forme di Covid severo nei bambini”. Una singolare coincidenza temporale che ciò avvenga proprio appena dopo l’approvazione del vaccino per l’età 5-11. Che fortuna, si direbbe…

Ma cosa ci può dire se sono davvero in aumento le “forme di Covid severo” nei bambini? I dati di ospedalizzazioni e terapie intensive. Ebbene, l’affermazione di Rasi al momento non è supportata dai dati ufficiali dell’ISS, i più recenti disponibili: il numero delle terapie intensive dall’inizio della pandemia nella fascia d’età 6-11 è fermo da almeno due settimane persino in termini assoluti: 36. Il che significa che, aumentando i casi diagnosticati, in percentuale è in calo: lo 0,0148 per cento al 17 novembre (36 su 241.739 casi); lo 0,0143 per cento al 24 novembre (36 su 251.221 casi); lo 0,0136 per cento al 1° dicembre (36 su 263.256 casi).

Saranno in aumento le ospedalizzazioni, cioè i ricoveri ordinari? Nell’ultima settimana monitorata dall’ISS sono aumentate di 30, ma su 12 mila casi diagnosticati in più. In percentuale sono stabili, anzi per essere precisi da almeno due settimane risultano in calo, quasi impercettibile dato il numero già esiguo: lo 0,58 per cento al 17 novembre (1.407 da inizio pandemia su 241.739 casi); lo 0,56 per cento al 24 novembre (1.423 su 251.221 casi); lo 0,55 per cento al 1° dicembre (1.453 su 263.256 casi).

Nel caso vostro figlio si prenda il China virus, ha lo 0,55 per cento delle possibilità di finire in ospedale (era lo 0,58 due settimane fa), lo 0,0136 per cento delle possibilità di finire in terapia intensiva (era lo 0,0148 due settimane fa), e questo al lordo delle patologie esistenti.

Quello che vediamo in lievissimo aumento nei grafici del medesimo rapporto ISS è il tasso di ospedalizzazione per milione di abitanti nella fascia di età 6-11. Ma ciò è coerente con una crescita dell’incidenza dei casi in questa fascia di età sul totale della popolazione. L’aumento o meno delle forme severe della malattia, il rischio di ammalarsi gravemente, si evince dal rapporto tra il numero di ospedalizzazioni e terapie intensive e il numero dei casi positivi diagnosticati in quella stessa fascia di età dall’inizio della pandemia.

Dunque, l’affermazione di Rasi non è supportata dai dati. Ci piacerebbe sapere su cosa abbia basato la sua affermazione in tv, davanti a milioni di italiani: su altri dati rispetto a quelli ufficiali dell’ISS oppure su qualche altra considerazione? Forse ha il dono della preveggenza e la prossima settimana aumenteranno i casi di malattia grave tra i bambini, ma ciò che conta è che la sua affermazione oggi non è supportata dagli ultimi dati pubblici disponibili. Se poi ci sono altri dati, non pubblici, questo è un altro problema – se possibile anche più grave.

Forse, l’aumento di “forme di Covid severo” segnalato da Rasi riguarda i bambini di età inferiore a 5 anni. È a questa fascia di età che si riferiva? Se così fosse, avrebbe poco senso, in quanto Rasi stava sostenendo la necessità di vaccinare i bambini e per questa fascia di età non ci sono ancora vaccini autorizzati.

In ogni caso, diamo uno sguardo. Anche nei bambini 0-5 anni il numero di terapie intensive dall’inizio della pandemia è fermo da due settimane: 83. In percentuale, è calato dallo 0,057 per cento del 17 novembre allo 0,054 del 1° dicembre. Forse le ospedalizzazioni? Nell’ultima settimana sono aumentate di 54, ma in percentuale abbiamo di nuovo un calo: erano il 2,60 per cento al 17 novembre (3.781 da inizio pandemia su 145.143 casi); il 2,58 per cento al 24 novembre (3.825 su 148.219 casi); il 2,55 per cento al 1° dicembre (3.879 su 152.047 casi).

Dunque, no. Nei dati dei ricoveri – ordinari e terapie intensive, da 0 a 11 anni – non si vedono “crescere forme di Covid severo nei bambini”. Per usare le parole di Rasi, chi doveva stare zitto non lo ha fatto, ha parlato senza avere ancora i dati…

Un altro particolare balza agli occhi nell’ultimo rapporto di monitoraggio dell’ISS. Sono scomparse le percentuali del rapporto vaccinati-non vaccinati nelle categorie diagnosi, ricoveri, terapie intensive e decessi. Nel rapporto della settimana scorsa erano indicate, ora te le devi calcolare da solo. Sintomatico, direi, della scarsa propensione alla trasparenza delle nostre autorità sanitarie… Qualcuno potrebbe sospettare che non siano più disponibili per non rendere immediatamente palese al pubblico che la percentuale di vaccinati che si contagiano e si ammalano in rapporto ai non vaccinati è in costante crescita.

Vediamo anche questo. In effetti, è così. Tranne che per il dato delle terapie intensive, è in progressivo aumento la percentuale di vaccinati contagiati, ricoverati e deceduti rispetto ai non vaccinati. In due settimane i vaccinati sono passati dal 57 al 61 per cento dei casi positivi; dal 46,6 al 49,3 per cento dei ricoveri ordinari; dal 52,4 al 56,2 per cento dei decessi.

Proviamo a ridurre il fattore di rischio rappresentato dall’età, prendendo in considerazione la fascia 12-59 anni e limitandoci alle diagnosi. In due settimane il rapporto vaccinati-non vaccinati tra i contagiati è passato da 50,4 contro 46 per cento del periodo 15 ottobre-14 novembre, a 55,7 contro 41,4 per cento del periodo 29 ottobre-28 novembre.

Crescono in particolar modo, anche di 3-4 volte in due settimane, contagiati e ricoverati tra i vaccinati da oltre 5 mesi, come prevedibile per il calo di efficacia dei vaccini. L’ISS stima che dopo 5 mesi l’efficacia vaccinale contro l’infezione cala dal 75 per cento al 44, mentre contro la malattia severa dal 92,5 all’84,8 per cento. Anche entro i 5 mesi i vaccini non sono immunizzanti, in particolare nella fascia di età 40-79, la cui copertura dall’infezione è stimata al massimo nel 72 per cento, per scendere al 33-38 dopo i 5 mesi.

Se andiamo a confrontare l’incidenza ogni 100 mila abitanti di vaccinati e non vaccinati (in tutte le categorie: diagnosi, ospedalizzazioni, terapie intensive, decessi) abbiamo la conferma di ciò che sapevamo: vaccinarsi è necessario per gli over 60, opportuno per gli over 40, pressoché indifferente per tutti gli altri, anche come stress per il sistema sanitario.

“I dati recenti indicano che il contributo dei vaccinati alla circolazione del virus è in crescita”, conclude un nuovo articolo pubblicato nei giorni scorsi su The Lancet, certo non la rivista dei no-vax. In Germania, il tasso di casi sintomatici tra i completamente vaccinati è passato dal 16,9 per cento della settimana del 21 luglio al 58,9 per cento del 28 ottobre tra i pazienti di 60 anni e oltre. Il CDC Usa ha identificato quattro delle prime cinque contee con la più alta percentuale di popolazione completamente vaccinata (99,9-84,3 per cento) come contee “ad alta” trasmissione. “Molti decisori – conclude l’autore – presumono che i vaccinati possano essere esclusi come fonte di trasmissione. Sembra essere gravemente negligente ignorare la popolazione vaccinata come possibile e rilevante fonte di trasmissione al momento di decidere le misure di controllo della salute pubblica”.

Altri due studi pubblicati il mese scorso dal New England Journal of Medicine, e citati da Allon Friedman, professore di Medicina presso l’Università dell’Indiana, mostrano che nella popolazione a basso rischio Covid (la maggioranza) i vaccini non riducono la mortalità.

Interessanti le caratteristiche che rendono questi due studi – uno sul vaccino Pfizer e l’altro sul vaccino Moderna – assolutamente peculiari. Innanzitutto, sono studi clinici con controllo randomizzato, che limita il più possibile l’influenza di altri fattori, noti o sconosciuti, sul risultato. Inoltre, sono stati esclusi i gruppi a più alto rischio Covid, come anziani fragili, obesi e altri soggetti con gravi malattie croniche. Si presume infatti che in questi casi il vaccino protegga e i benefici superino di gran lunga i rischi.

Lo studio sul vaccino Moderna ha riportato 1 decesso per Covid nel gruppo dei vaccinati e 3 nel gruppo dei non vaccinati, quello sul vaccino Pfizer rispettivamente 1 e 2. Troppo pochi per essere statisticamente rilevanti.

Ma il dato più rilevante è quello che emerge dalla mortalità per tutte le cause, che conta ogni decesso avvenuto durante il periodo di studio, non solo quelli per Covid. Infatti, prendendo in considerazione non soltanto i decessi per Covid, ma tutte le cause di morte, si supera il problema dell’attribuzione o meno al Covid della causa di morte, spesso discrezionale, e vengono bilanciati tutti i possibili effetti dei vaccini, buoni e cattivi, noti e sconosciuti, che potrebbero influenzare il rischio di morte.

Ebbene, su 74.580 persone seguite complessivamente dai due studi per 6-7 mesi, metà vaccinate e metà con placebo, 37 persone sono decedute tra i vaccinati e 33 tra coloro che hanno ricevuto il placebo. Quindi, conclude Friedman, “gli obblighi vaccinali non si basano sulla migliore scienza, sono enormemente costosi e terribilmente divisivi, una cura peggiore della malattia”.

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