Cultura

La Pechino-Parigi del 1907/5: l’immenso e temuto deserto del Gobi

Facile riconoscere il sentiero giusto: basta seguire il biancore delle ossa che lo costeggiano e le carcasse dei cammelli, cavalli e muli

Pechino-Parigi 1907

Il triciclo Contal abbandona il raid

Ad una stazione telegrafica successiva, nella sterminata Mongolia, la spedizione dovette rassegnarsi alla rinunzia del triciclo Contal a proseguire:

Aspettammo inutilmente l’arrivo del triciclo. I nostri compagni espressero la ferma opinione che Pons fosse tornato indietro. In questo senso telegrafai immediatamente. Non nutrivamo sulla sorte di Pons e del suo compagno alcuna inquietudine. Erano ancora in regioni abitate, ed avrebbero trovato facilmente ospitalità ed aiuti.

Così ne scrive Barzini nel diario di bordo. Resistendo alla tentazione di inseguire piccoli branchi di gazzelle ed antilopi che si trovavano lungo il tracciato, l’automobile italiana, che nuovamente viaggiava in testa al gruppo, riusciva a raggiungere i 90 chilometri all’ora nei tratti più pianeggianti, senza altre soste che non fossero quelle “tecniche”.

Il tempio nella prateria

All’improvviso, nella desolata prateria, appare qualcosa che lascia stupiti e meravigliati: un gruppo di edifici bianchi, tutti addossati tra loro come a formare una cittadella, appare agli occhi dei viandanti. L’edificio centrale, maestoso nelle forme più che nelle dimensioni, è un tempio lamista, contornato da altri edifici più piccoli ma ugualmente decorati e curati, tutti intonacati a calce bianchissima. Le costruzioni sembrano abbandonate e non v’è anima viva. Quando già i componente del team italiano stavano tornando all’automobile per riprendere i viaggio, un inaspettato incontro:

Stavamo per ritornare a bordo, quando da una porticina venne fuori un vecchio, a piccoli passi. Ci vide, e si fermò. Era alto, vestito di un costume bizzarro che gli lasciava le braccia nude, magro, con un volto rugoso da vecchia. lo avvicinammo, lo riverimmo, lo fotografammo, gli parlammo, ed egli non si mosse e non rispose. Non mostrava né stupore, né paura. Pareva soltanto assorto in una meditazione profonda sul mistero del nostro essere e della nostra presenza in quei luoghi. Ci guardava senza poter comprendere. Nei suoi occhi v’era lo sforzo della concentrazione. Sarebbe stato impossibile indovinare la sua età; sembrava forte e sembrava decrepito; sul suo viso s’affossavano i solchi d’una vecchiaia incalcolabile. Rimontati in macchina ci volgemmo correndo, e lo vedemmo ancora lì, immobile, che ci guardava sempre, quel vecchio solo che non riusciva a capire.

Il deserto del Gobi

Iniziava da lì il vero deserto, l’immenso e temuto Gobi, ove ormai non si poteva scorgere alcuna vegetazione tutt’intorno e nel quale le uniche presenze viventi erano certe grosse lucertole timorose, che scappavano al passaggio dell’automobile, lasciando una traccia a zigzag sulla sabbia. Nella cocente calura del deserto, sovrastato da un cielo blu tendente al turchino, l’unico modo per non essere sconfitti dalle temperature impossibili del giorno era correre più che si poteva, per poter ricevere quel po’ di aria fresca in volto che permetteva almeno di respirare.

La macchina ancora rispondeva bene, dando l’impressione di essere nata per lasciarla correre più che per sfidarne il telaio negli aspri e ripidi passaggi rocciosi della prima parte del viaggio.

La siccità dell’aria ci procurava delle sofferenze che aumentavano da minuto a minuto. La nostra pelle era inaridita, come per una febbre, e ci mancava cosi la difesa d’una traspirazione che assorbisse calore evaporando. Perciò sentivamo sul viso e sulle mani bruciare il sole in modo tanto aspro, da darci l’impressione d’essere sotto il foco d’una lente smisurata.

La parte più feroce del deserto non è sterminata, assommando a circa 60 chilometri, ma è quella che le carovane coi cammelli dovevano compiere in un sola tratta, partendo a notte alta per sottrarsi almeno in parte a quel forno. Facile riconoscere il sentiero giusto: basta seguire il biancore delle ossa che lo costeggiano e le carcasse dei cammelli, cavalli e muli che non ce l’hanno fatta. Ora più che mai, fermarsi anche solo per una breve sosta sarebbe estremamente pericoloso.

Rari pozzi d’acqua non propriamente limpida sono l’unica risorsa a cui attingere in fretta, senza nemmeno spegnere il motore. Unico segno del passaggio umano sono i moltissimi obo (gruppi di pietre sovrapposte a piramide) di evidente significato votivo, eretti da tempo immemore da chi ha osato traversare il deserto e di ciò ne fecero lode a Budda, che lo permise.

Ogni obo è decorato con numerose striscioline di carta, sulle quali sono scritte antiche preghiere, e di bellissimi nastri di stoffa colorata, secondo una tradizione che, affidando al vento quelle bandierine in eterno movimento, ancora oggi caratterizza il culto buddista.

Non soltanto gli uomini erano frustati dalla sete, ma anche la macchina abbisognava di frequenti rabbocchi al radiatore, ed essendosi deciso che non si sarebbe dovuto mettere mano ai serbatoi di riserva, se non in casi estremi, i rari pozzi lungo il percorso erano un vero e proprio miraggio, quand’anche non lo fossero in senso stretto, a causa del noto fenomeno fisico delle ombre confuse nel  tremolio dell’atmosfera all’orizzonte.

Il principe Scipione dava l’esempio, costituendo di fatto la regola: al massimo, con quell’acqua del serbatoio, che sapeva di olio e benzina, ci si poteva soltanto bagnare le labbra, ogni tanto. Si soffriva, e tanto. La pelle bruciava e doleva anche di notte e sembrò quasi impossibile proseguire in quella tortura. Ma si andò avanti.

L’arrivo a Urga

Ma tutto cambia ancora, e quel felice momento, dopo tanta sofferenza viene descritto così:

Il tragitto fra Tuerin ed Urga ci è sembrato incantevole, forse perché venivamo dal Gobi, trovavamo tutto delizioso: il verde, la strada, il cielo. Poiché anche il cielo era cambiato: aveva delle nubi e noi ammiravamo pure le nubi, specialmente quando si compiacevano di far scorrere le loro grandi ombre fugaci su noi come delle immense e lievi carezze. Andavamo a cinquanta chilometri all’ora, talvolta a sessanta. Il terreno era leggermente ondulato, e ci lasciavamo scivolare nelle molli discese con tutto l’impeto della velocità e del peso. Eravamo lieti, parlavamo, trovavamo mille cose da dire, richiamavamo la nostra attenzione su tutto quello che vedevamo, pensavamo ad alta voce. Dopo la notte, viene sempre il giorno, verrebbe da dire…

Le altre auto partecipanti al raid, le due De Dion Bouton e lo Spyker olandese, erano dietro di almeno trecento chilometri, attardate dal tempo perso per farsi mandare a dorso di cammello la benzina che avevano esaurito, a causa dei serbatoi molto più piccoli di quelli della macchina italiana. Il triciclo Contal, ormai era fuori partita. Finalmente, di nuovo le yurte dei pastori nomadi, presso le quali pascolavano beatamente le loro mandrie, ricominciavano a costellare il paesaggio. Un altro traguardo importante era stato raggiunto.

L’aspetto del paesaggio ci diceva la distanza percorsa. Ci sentivamo già in mezzo ad una non so quale nordica severità. Sentivamo che la Siberia era vicina. Sboccammo nell’ampia valle del Tola, e verso ponente scorgemmo Urga, incerta come in un miraggio, punteggiata da edifici bianchi che dovevano essere santuari. Fu un lungo cammino.

Urga è, in realtà, composta da tre città, distanti tra loro alcuni chilometri; la prima di razza cinese, la seconda di origine slava e la terza di razza mongola, bene protette da ampie cinte murarie, ciascuna come a proteggersi da possibili incursioni provenienti dalle altre due. D’altra parte, anche i Dalai Lama sono tre, ciascuno, per la fede buddista, incarnazione vivente del Budda: uno ad Urga, uno in Tibet ed uno a Pechino.

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