Cultura

La Pechino-Parigi del 1907/4: gente di Mongolia

Quarta parte di una grande impresa italiana degli inizi del ‘900: il deserto del Gobi, il giovane capo mongolo-tedesco, il telegrafista di Phong Kiong

Pechino-Parigi 1907

Alle ore otto del mattino del 17 giugno 1907, l’Itala attraversa il confine con la Mongolia, avventurandosi nello sterminato altopiano erboso della breve stagione estiva. Luigi Barzini, memore della poca solerzia degli impiegati degli uffici telegrafici imperiali, decide di affidare il testo del telegramma ad un giovane funzionario della Legazione francese:

Lasciammo Kalgan stamane. Passiamo ora il confine mongolo. Sono le otto del mattino, Abbiamo percorso col motore il letto del fiume Shin-Shan per 25 chilometri. Superammo facilmente 1828 metri d’altitudine. Paesaggio incantevole.

All’improvviso, tra la vasta prateria mossa dal vento come un mare verdeggiante, si erge una roccia maestosa che assomiglia ad un castello medievale. Completamente traforata da buchi regolari scavati nella roccia, ha chiaramente l’aspetto di una antica fortezza, attorno alla quale camminano silenziosi alcuni pastori mongoli con le loro greggi, guardando con grande rispetto a quel colosso che la tradizione attribuisce all‘opera del grande Gengis Khan, il quale, dopo aver scoccato una freccia dal suo arco e colpendo la nuda roccia, creò per magia un grande pertugio, attraverso il quale si può passare, come se fosse l’entrata obbligata dell’imponente castello lungo la pista.

Finalmente, all’orizzonte, guardando verso la direzione dalla quale erano prevenuti, si scorgono due, forse tre, automobili lontanissime che avanzano a passo d’uomo. Sono gli altri membri della spedizione, che, incredibilmente, sono anch’essi riusciti ad entrare in Mongolia. Nessuna sosta. Dopotutto è una gara, e sta già facendo sera, per cui si decide di non attendere i ritardatari e di proseguire verso il primo centro abitato ove trascorrere la notte.

Mongoli curiosi

Man mano che la spedizione si addentrava nell’interno della Mongolia, seguendo l’interminabile teoria dei pali telegrafici tra un villaggio e l’altro, il popolo mongolo si fa coraggio. Ad ogni fermata della carovana di auto (a quel punto le auto ritardatarie, ad eccezione del triciclo Contal, si erano riunite all’Itala) sempre più curiosi si fanno attorno alle automobili, iniziando a toccarne tutte le componenti, come per saggiare di quale materiale fossero fatte.

È il prode Ettore, lo chauffeur del principe, ad architettare un sistema per tenere a bada le vere e proprie folle che si radunano intorno alla macchina italiana: semplicemente, tracciando con un ferro un cerchio tutt’attorno all’auto, misura del tutto sufficiente a trattenere i più intraprendenti e curiosi, che, di fronte a quel gesto simbolico di cui quelle genti sono così rispettose, rimangono dietro il solco tracciato a terra.

Troppo carico!

Il desiderio di procurarsi una scorta extra di masserizie, acqua e cibo per proseguire nella traversata dell’altipiano mongolo giocò però ai nostri un brutto scherzo, per il peso eccessivo del carico sulla parte posteriore della macchina. Barzini ne dice così:

Nei primi passi facemmo una constatazione dolorosa: il soverchio carico forzava talmente le molle posteriori, che al più piccolo sobbalzo dell’automobile sbatteva pesantemente sull’asse del differenziale. Bisognava andare lentamente ma il terreno era ineguale e i colpi succedevano violenti.

Rompiamo le molle!”

Rompiamo il differenziale!” esclamò Ettore, che pareva “battessero sul cuore”.

Ma la risolutezza del principe Borghese, messosi alla guida, ancora una volta ebbe la meglio. Avanti! Avanti! Unica concessione alle preoccupazioni di Ettore, fu quella di alleggerire l’auto di quelle parti che vennero ritenute non essenziali, accessori che vennero dati in dono ai nomadi mongoli lungo la strada, che tornavano gioiosamente alle loro yurte di feltro e fango con quei trofei.

Chi ci portava un secchio d’acqua, riceveva un parafango, un piccone a chi ci dava delle uova”.

Posta da Pechino

Una sera, ad un tratto, la calma del fuoco di bivacco, alimentato a sterco di cammello essiccato, alla maniera mongola, viene interrotta dal suono di un cavallo al galoppo: un soldato cinese, giunto di gran furia mentre era ormai notte, si avvicina al gruppo, chiedendo di “Po-lu-ghe-se”. Il principe, immediatamente intuisce che si cerca di lui e si fa incontro al militare, spossato da quella che, evidentemente, deve essere stata una lunghissima galoppata e da questi riceve un plico arrotolato.

È la posta da Pechino ed il soldato, che aveva percorso circa cento chilometri in undici ore, prima ancora che si possa fare posto per lui attorno al bivacco, scompare nella notte, ancora al gran galoppo.

Misteriosi predoni

In quella stessa notte, i partecipanti al raid si accorgono che erano misteriosamente spariti alcuni oggetti: un coltello, un centinaio di cartucce da revolver ed altre cose, per fortuna, non indispensabili. Fatte le opportune verifiche, si conclude che, evidentemente, i predoni altri non potevano essere che alcuni dei tanti abitanti dei villaggi che si erano avvicinati alla carovana, con la loro festosa accoglienza nella loro terra. Da allora in poi, sia gli italiani che i francesi dormirono con le armi cariche ed a portata di mano.

A proposito di francesi: fu proprio nella notte del misterioso furto che alla comitiva s’aggiunse anche l’equipaggio del curioso triciclo Contal che, per quanto un po’ malconcio, era riuscito a colmare il grande ritardo sull’Itala e sulle due De Dion-Bouton e la Spyker che lo precedevano. Venne deciso che proprio il triciclo Contal e la Spyker, i mezzi più lenti e svantaggiati, avrebbero anticipato la partenza alle primissime luci dell’alba, per non rimanere tagliati fuori dal raid: sportività allo stato puro, cosa non sempre riscontrabile ai nostri giorni.

Alle soglie del Gobi, il tedesco

Non più campi cinesi, ora, né casupole di fango. Soltanto la pianura selvaggia avanti a noi, verde ed eguale”.

Erano giunti al limite tra la grande distesa d’erba, popolata da enormi mandrie di vacche e dai loro custodi, e l’immenso deserto del Gobi, che ormai si approssimava sempre più.

Giunti presso un piccolo villaggio lungo il sentiero sempre più sassoso, non è difficile riconoscere la yurta del capo, vistosamente più grande e curata nell’aspetto esteriore e, invitati da una donna ad entrarvi, anche l’interno si rivela ordinato e con qualche mobile quasi di pregio. Si fa loro incontro un giovane, spiazzando tutti:

“Sprechen Sie Deutsch?”

“Ja”, è la risposta del risposta del principe al colmo dello stupore. Interrogato su come potesse il giovane capo parlare il tedesco con accento quasi perfetto, la risposta è semplice ed altrettanto stupefacente: lo ha imparato a Berlino, ove ha vissuto due anni.

E cosa facevate a Berlino? ”

Facevo il mongolo!”.

Da questa conversazione un po’ surreale, si scoprì che il giovane capo era stato recentemente in Germania, partecipando a non so quale esposizione internazionale, ove aveva potuto illustrare agli occidentali i costumi e le semplici basi della semplice economia rurale del suo Paese. Una specie di ambasciatore del commercio, dimostrando che, talvolta, anche le più lontane e dimenticate regioni del mondo hanno una propria dignità e qualcosa da dire a chi si ritenga, magari, superiore perché attinto dal progresso di un’epoca precisa.

Lo stesso Barzini, come tutti suoi coevi un po’ incline al trionfalismo nei toni del cantore dei successi delle più ricche nazioni europee, fa doveroso cenno a quest’episodio, tutt’altro che insignificante, proprio qualche pagina dopo aver celebrato la missione morale dell’Europa e (anche) con ciò dimostrando di essere stato un grande e libero cronista del suo tempo.

Ormai, inesorabilmente, il paesaggio si va facendo sempre più aspro e simile alla steppa, con sempre più radi sprazzi d’erbe grasse. Unica ricchezza locale, i pozzi. La marcia prosegue abbastanza agevolmente, al punto da dimenticare l’autonomia massima (circa 200 chilometri) del serbatoio dell’Itala, che più volte si ferma senza carburante e deve essere rifornita dai serbatoi di riserva, tramite una serie di tubi e sifoni.

Il telegrafista di Phong Kiong

Ecco Phong Kiong” grida, esultante, il principe Borghese, indicando, dopo aver consultato la carta, un punto scuro all’orizzonte come un marinaio che avvisti terra dopo una lunga traversata oceanica.

Mi perdoni, principe, ma quello non mi pare un paese…” gli fa eco Ettore.

Appunto: Phong Kiong è un pozzo ed un telegrafo”. Mongolia.

Al pozzo di Phong-Kiong eravamo aspettati dal telegrafista cinese al quale è affidata quella stazione. Ci è venuto incontro fuori dal suo recinto e ci ha ricevuti con grandi dimostrazioni di contentezza. Deploro di non ricordare il nome di questo eroe che vive nel deserto per permettere all’Occidente e all’Oriente di parlare tra loro. La città di Kalgan è a quasi 300 chilometri, Urga è a 800 chilometri. Qualsiasi cosa accada a quell’uomo, egli non può fuggire. L’immensità dello spazio equivale ad una prigione… nessuno può soccorrerlo.

La cosa stupefacente, tuttavia, deve ancora accadere. Dettato al piccolo cinese il telegramma da spedire al Corriere della Sera, contenente gli aggiornamenti sul raid, Luigi Barzini chiede al telegrafista se fosse il primo telegramma di quel giorno.

No signore, è il primo di questo ufficio, da sei anni” è la risposta di quella specie di eremita che vive in sola compagnia di una bambina, sua figlia, e del suo apparato telegrafico. In effetti, l’ufficio telegrafico di Phong Kiong vede passare moltissime comunicazioni telegrafiche tra Pechino e le maggiori città cinesi e mongole, anche dirette in Occidente, ma non ne spedisce mai di sue, ossia telegrammi richiesti direttamente al suo telegrafista.

È vero, dopo i momenti di grande traffico ufficiale, la linea telegrafica, nelle ore serali, si riempie delle comunicazioni tra le tante stazioni lungo la linea, ma sono comunicazioni per ammazzare il tempo, giusto per chiedersi come sta la famiglia e come sia andata la fienagione necessaria alle vacche.

In un piccolo ma sconfinato mondo recintato da innumerevoli pali telegrafici che sostengono linee costantemente riallacciate dopo le bufere di neve invernali, lungo quei fili ove scorrono notizie del tutto estranee a quegli umili impiegati dell’imperatore cinese, v’è la consolazione di una sorta di vicinato a centinaia o migliaia di chilometri, un microcosmo dove vivono sereni ed imperturbabili nella loro semplice esistenza. Gente di Mongolia.

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