Cultura

La Pechino-Parigi del 1907/3: la grande brama dell’anima occidentale

Terza parte di una grande impresa tutta italiana (auto ed equipaggio) agli inizi del ‘900: il cavallo nascosto, le montagne in basso e la pianura in alto

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Magro, scattante e con la lunga barba bianca, il capo dei coolies si chiamava Pietro. Un anziano cinese, impiegato presso la Legazione italiana a Pechino, che ispirava autorevolezza e la cui parola, secca ma emessa con tono moderato, metteva immediatamente fine a qualsiasi controversia tra gli instancabili lavoratori che si occupavano di trainare l’Itala con lunghe funi fissate al telaio nei tratti fangosi e più scoscesi. Una volta, Barzini chiese a Pietro, il Ma-fu (capo) come mai avesse un nome cristiano.

“Veramente, il mio nome è Wu-lin”

“Ma, allora, perché se ti chiamano Pietro, tu rispondi?”

“Se tutti chiamale me Pietlo io lispondele”.

Nella lapalissiana semplicità della risposta del vecchio Ma-fu stava tutta la schietta essenza del popolo cinese di quegli anni d’inizio secolo. Si sa: poi le cose cambiano e così le genti.

Il cavallo nascosto

Nella prima parte del viaggio, il paesaggio era prevalentemente montuoso e pioveva quasi sempre, a rendere ancora più ardua l’avventura dei partecipanti al raid. Lungo la strada, o meglio ciò che lontanamente assomigliava ad una strada, si affacciavano piccoli e medi villaggi, talvolta dotati di grandi statue del Budda pantocratore, che sembrava osservare con diffidenza quella piccola carovana in cui spiccava il mostro di ferro e legno a cui tutti prestavano unica attenzione.

Non appena l’automobile si approssimava ad una paese, la gente correva a frotte tutt’attorno, incuriosita ma rispettosa per quella cosa nuova che sembrava muoversi senza la forza motrice animale. Erano così incuriositi dalla macchina che, talvolta, durante le soste nei paesi per rifornirsi di cibo ed acqua fresca, alcuni dei più giovani si accovacciavano nei pressi della parte inferiore del motore, passando trasversalmente un braccio come a cercare le zampe del cavallo che a loro pareva impossibile non vi fosse nascosto, chissà come, sotto al cofano.

Vita a bordo

Il Principe Borghese si era già da tempo congedato dalla consorte e dal fratello, che erano stati scortati nel viaggio di ritorno verso Pechino ed ora, a bordo dell’Itala, vi erano soltanto Scipione Borghese, Ettore Guizzardi e Luigi Barzini. Tra di loro i rapporti erano cordiali ma senza indulgere ad un cameratismo che sarebbe suonato come sconveniente, nonostante dividessero il cibo e gli angusti spazi per riposare.

Dopotutto, all’epoca, un principe era un principe ed altrettanto un giornalista, che non familiarizzava più di tanto con lo chauffeur. Ognuno sapeva stare al proprio posto. Con quel rispetto vicendevole che oggi non conosciamo più.

Tutto sommato, il mezzo meccanico dimostrava di essere stato progettato e costruito con criteri di resistenza allo sforzo e durabilità di tipo, diciamo… ferroviario, ossia senza lesinare sulle dimensioni delle sue componenti, ed i suoi stessi occupanti non finirono mai di stupirsi di quanto fosse efficace ed affidabile quell’auto adattata in fretta per percorrere ben altre strade di quelle per le quali era stata concepita.

Verso la Grande Muraglia

Finalmente, dopo i giorni di pioggia, era tornato il sole, troppo sole. Ora si avanzava per deserti sabbiosi e le ruote del mezzo tracciavano solchi profondi che sarebbero rimasti per mesi interi dopo il suo passaggio. Man mano che procedevano, ormai ridotti nel numero di uomini e animali di scorta, si cominciavano ad intravedere in lontananza i primi bastioni della Muraglia.

Nel villaggio di Haui-Lai, il capo villaggio, cordiale e rispettoso come tutti gli abitanti che gli fanno da schiera tutt’attorno, accetta di assaggiare il cibo dei partecipanti all’impresa (carne in scatola e formaggio) dichiarando il proprio mancato apprezzamento per il secondo, che sputa sulla sabbia senza tante cerimonie, al che la folla emette un “oooohhhh” che, probabilmente significa la disapprovazione per le abitudini alimentari dell’Occidente in genere, mentre sembra gradire assai la carne, di cui tesse, evidentemente le lodi comunicandole al suo uditorio, scatenando un convinto applauso.

Assaggiato il cibo, bisogna pure provare le bevande no? Afferrata la bottiglia di vino italiano che gli porge il principe, il vecchio dapprima la rigira tra le mani come per interpretarne l’etichetta colorata, poi, con il gesto dell’eroe che si sacrifica per la comunità, se la tracanna tutta in pochi sorsi, emettendo poi un gagliardissimo rutto che, ancora una volta, scatena l’approvazione dei suoi concittadini e l’incontenibile ilarità degli italiani che ritirano la bottiglia vuota, resistendo alla tentazione di offrirne una seconda per non avere sulla coscienza la vita del capo villaggio.

Finalmente la strada sembra farsi più percorribile a motore e l’audace Ettore può premere a fondo sull’acceleratore, incalzato dalle grida e dalle risate di Boghese e Barzini, il quale, di questo momento offre un quadro d’incomparabile efficacia nel descrivere lo spirito che animò l’impresa:

Vediamo dei tetti di pagoda fra gli alberi. Ci pare d’interrompere una quiete millenaria, d’essere i primi a gettare fuggendo un segnale di risveglio ad un gran sonno. Sentiamo in noi l’orgoglio di una civiltà e d’una razza, sentiamo di rappresentare qualcosa di più di noi stessi. Sulle montagne è l’Europa che passa. Nella velocità si riassume tutto il significato della civiltà nostra, la grande brama dell’anima occidentale, la sua forza, il segreto vero del suo progresso è espresso in queste due parole: ”Più presto!”. La nostra vita è incalzata da questo desiderio violento, da quest’incontentabilità dolorosa, da questa ossessione sublime. “Più presto!”. Nell’immobilità cinese noi portiamo davvero l’essenza delle nostre febbri.

Verso la Mongolia

Prima meta intermedia, Kalgan è ora immediatamente a ridosso della nuova cerchia di montagne che circondano, dopo la rilassante pianura, la nostra macchina. Giunti, con le ormai consuete difficoltà, alla sommità della cordigliera da cui si poteva già scorgere Kalgan, trovano un grande e meraviglioso tempio buddista, costruito chissà come e da chissà quante maestranze selezionate proprio sul picco roccioso. Pietro sostiene che non fu opera umana, ma dello stesso Budda, il quale, assunte le sembianze di un vecchio, lo costruì, assieme al ponte sul fiume Hun che colà conduce, in una sola notte.

I coolies cinesi, ormai hanno imparato il significato delle parole “forza, fermi, avanti, piano, attenti” ed ora non hanno nemmeno più bisogno di essere indirizzati verso una specifica manovra, come quella di afferrare i raggi delle ruote e spingere, perché ormai hanno perfettamente capito quali siano le difficoltà a proseguire del Chi-Cho in certi tratti.

Lungo una delle ultime aspre strettoie che conducono a Kalgan, all’improvviso, l’auto rischia di rimanere impantanata nella mota (eh già: si era rimesso a piovere forte). Dopo un breve scambio d’invettive in un dialetto incomprensibile, due coolies si sono azzuffati e la carovana si è fermata. Chiestane ragione a Pietro, i nostri apprendono che la controversia è sorta perché uno dei due aveva schernito l’altro per la sua apparente poca forza fisica ed erano venuti alle mani.

Il tutto è durato pochi secondi ed è finito, tra lo stupore degli italiani, nel preciso istante in cui “il meno forte” aveva tirato il codino al “più forte”, mettendo fine definitiva alla lite col peggior segno di disprezzo che possa immaginare un cinese: tirare un altro per il codino.

Le montagne in basso

Fatta una curva, all’improvviso, compare in distanza l’azzurrognolo altipiano della Mongolia. Tutti esultano: forse il peggio è passato. La particolarità della pianura mongola è di essere più alta delle montagne circostanti. In ciò si cristallizza una delle storiche contraddizioni della Cina: le montagne in basso e la pianura in alto.

Nei pressi di Hsin-Wa-Fu, capoluogo locale, un nuovo bagno di folla: persone di ogni condizione sociale e di svariate etnie si fanno attorno all’Itala che incontra un gruppo di cavalieri che, con fare minaccioso, si approssima, senza salutare, alla carovana. Il solito Pietro, insostituibile guida, oltre che capo manipolo e cuoco della spedizione, avverte i nostri che trattasi di uomini al servizio del mandarino locale, capeggiati dal figlio di questi. Semplicemente, i cavalieri volevano vedere da vicino l’automobile, ma il loro rango impediva loro di presentarsi: erano i padroni del territorio.

Il telegramma

L’ufficio telegrafico di Hsin-Wa-Fu è degno di una nota specifica nel racconto e, ancora una volta, lascio la parola a Luigi Barzini:

Non lo dimenticherò mai, quello straordinario ufficio (in cui i due telegrafisti fumavano l’oppio in santa pace ndr)

Posso spedire un telegramma?- chiesi gentilmente dopo aver scambiato i saluti di rito. Silenzio. Io mi sedetti. Dopo qualche minuto ripresi:

-Avrei un telegramma da mandare – Uno dei fumatori mi si appressò, fece non so quali faccende per l’ufficio, si affacciò all’uscio e chiese che si portasse del the.

-Volete trasmettere un mio telegramma? – esclamai ancora. Delle idee cominciavano a farsi strada nella mente del funzionario imperiale. Mi guardò e mi disse, in un inglese approssimativo:

-Noi siamo in comunicazione diretta con Kalgan. Tre ore al giorno con Kalgan e tre ore con Pechino: dalle sette alle undici con Kalgan e… –

-Benissimo. Il mio telegramma va in Europa. Accettate telegrammi per l’Europa? – Silenzio. Arrivò il the. Ne sorbii una coppa, mentre mi preparavo a scrivere il dispaccio, poi ripetei:

-Accettate dunque telegrammi per l’Europa, si o no? – L’impiegato, placidamente, mi squadrò come se mi vedesse allora soltanto:

-Europa? Noi siamo in comunicazione diretta con Kalgan. Tre ore al giorno con Kalgan e tre ore con Pechino: dalle sette alle undici con Kalgan e… –

-Ne ho abbastanza, arrivederci. –

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